Wangari Maathai. Guarire la Terra, guarire noi stessi

Wangari Maathai, Premio Nobel per la Pace nel 2004, è scomparsa il 25 settembre 2011. In questo saggio tratto dal suo libro “Replenishing the Earth: Spiritual Values for Healing Ourselves and the World”, descrive cosa motivò il suo eccezionale lavoro. (Tratto da “Yes! Magazine”, 26.9.2011, trad. Maria G. Di Rienzo)

Durante i trent’anni e più che ho passato come ambientalista e attivista per i diritti democratici, la gente mi ha spesso chiesto se la spiritualità, differenti tradizioni religiose e la Bibbia in particolare mi avessero ispirato, ed avessero influenzato il mio impegno o il lavoro con il Green Belt Movement (GBM). Consideravo la conservazione dell’ambiente ed il dare potere alla gente comune come un tipo di vocazione religiosa? C’erano lezioni spirituali da apprendere ed applicare agli sforzi ambientalisti o alla vita in generale?

Quando iniziai questo lavoro nel 1977 non ero motivata dalla mia fede o dalla religione in generale. Stavo invece letteralmente e praticamente pensando a come risolvere problemi concreti. Volevo aiutare le popolazioni rurali, in special modo le donne, a soddisfare le necessità di base che mi descrivevano durante i miei seminari e laboratori. Mi dicevano che  avevano bisogno di acqua pulita, potabile; di cibo nutriente in quantità adeguata; di reddito; di energia per cucinare e riscaldare.

Perciò quando mi facevano le domande sulla spiritualità, all’inizio, io rispondevo che non pensavo allo scavare buchi ed al mobilitare le comunità affinché difendessero o curassero gli alberi, le foreste, le fonti d’acqua e il suolo, l’habitat delle specie selvatiche, come a lavoro spirituale. Inoltre, non ho mai differenziato le attività “spirituali” e quelle “laiche”. Dopo qualche anno, sono arrivata a riconoscere che i nostri sforzi non erano limitati al piantare alberi, ma che stavamo anche piantando semi di un tipo diverso, quelli necessari per dare alle comunità la fiducia in se stesse e la conoscenza necessarie a riscoprire la loro vera voce ed a rivendicare i loro diritti (umani, ambientali, civili e politici). Il nostro scopo divenne espandere quello che chiamiamo “spazio democratico”, uno spazio in cui cittadini comuni possono prendere decisioni per se stessi a beneficio proprio, della propria comunità, del proprio paese e dell’ambiente che li sostiene.

In tale contesto, cominciai ad apprezzare il fatto che ci fosse qualcosa che ispirava e spalleggiava il GBM e coloro che partecipavano alle sue attività. Molte persone provenienti da gruppi e regioni differenti ci contattarono perché volevano condividere il nostro approccio con altri. Capii che il lavoro del GBM era guidato da alcuni valori intangibili. Essi erano: amore per l’ambiente, gratitudine e rispetto per le risorse della Terra, capacità di darsi potere e di migliorare se stessi, spirito di servizio e volontariato. Insieme, questi valori incapsulavano l’aspetto intangibile, sottile, non materialistico del GBM come organizzazione. Ci permettevano di continuare a lavorare anche quando i tempi si facevano difficili.

Naturalmente, so bene che tali valori non sono appannaggio del Green Belt Movement. Essi sono universali. Non possono essere toccati o visti. Non possiamo dar loro un valore monetario: in effetti, sono impagabili. Questi valori non sono contenuti in specifiche tradizioni religiose, ne’ uno deve far professione di fede per essere guidato da essi. Sembrano piuttosto essere parte della nostra natura umana, ed io sono convinta che siamo persone migliori perché li abbiamo, e che l’umanità è migliore avendoli piuttosto che non avendoli. Dove questi valori sono ignorati, li rimpiazzano dei vizi come l’egoismo, la corruzione, l’avidità e lo sfruttamento.

Nel processo in cui aiutiamo la Terra a guarire, aiutiamo noi stessi.

Per quel che posso dire attraverso le mie esperienze e le mie osservazioni, credo che la distruzione fisica della Terra si estenda anche a noi. Se viviamo in un ambiente ferito, dove l’acqua è inquinata, il cibo è contaminato da metalli pesanti e residui plastici, e il suolo è praticamente immondizia, ciò ci affligge, influisce sulla nostra salute e crea ferite a livello fisico, psicologico ed individuale. Degradando l’ambiente degradiamo sempre noi stessi.

Wangari Maathai

Acqua, donne e salute: il trio prezioso

“Life’s Precious Trio: Women, Water and Health”, di Elayne Clift per Ontheissuesmagazine, http://www.ontheissuesmagazine.com/ – Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo




La sua giornata comincia prima dell’alba. Cammina per oltre quattro miglia su sentieri dissestati per raggiungere un buco scavato a mano, dal quale raccoglie il fabbisogno d’acqua giornaliero per la sua famiglia. L’acqua è inquinata da moscerini, feci e animali. Nella stagione secca il percorso è periglioso, perché le pareti scoscese di fango collassano e feriscono le donne e le bambine che vengono a prendere la preziosa acqua anche due volte al giorno. Quando arriva a casa, portando sulla testa un orcio che pesa quanto un cucciolo di giraffa, è esausta. La notte cammina fino alla latrina, al buio, e rischia aggressioni sessuali.

Questa è la vita quotidiana di molte donne, come lo era per la tanzanese Nakwetikya prima che un’ong con base in Gran Bretagna, Water Aid, installasse un pozzo nel suo villaggio. “La situazione era tremenda.”, dice Nakwetikya, “Non c’era acqua e scavavamo buchi per trovarne un po’. Le mie gambe cominciavano a tremare dalla paura prima ancora che mi calassi in quei buchi. Ma non c’era scelta. Se non trovavo l’acqua la mia famiglia non poteva mangiare, lavarsi e neppure bere un sorso.”

La mancanza di acqua e di impianti sanitari ha un impatto enorme sulle vite di milioni di donne nel mondo. In un solo giorno, più di 200 milioni di ore sono spese collettivamente dalle donne nel raccogliere acqua per uso domestico. E più di 600 milioni di donne vivono senza acqua sicuramente potabile e senza le necessità igieniche di base. L’accesso all’acqua influisce sulla salute delle donne in svariati modi. Soffrono dolori alla schiena, spine dorsali ricurve e deformità pelviche date dal trasportare grossi contenitori d’acqua sulla testa. Ironicamente, sono spessissimo disidratate. Sono soggette a contrarre malaria, diarrea e parassiti. Tutte malattie che hanno a che fare con il loro ruolo di cura, e che possono essere prevenute migliorando l’accesso all’acqua ed agli impianti sanitari, e maneggiando meglio le risorse.


Per far questo, le donne devono sedere al tavolo decisionale: sono loro a sapere di cosa c’è bisogno per rendere l’acqua sicura ed accessibile. I progetti che sono stati realizzati con la piena partecipazione delle donne si sono dimostrati i più sostenibili ed i più efficaci. “Poiché sono le principali utilizzatrici dei futuri pozzi, le donne sono in grado di decidere meglio la posizione di una fonte d’acqua, ed hanno una conoscenza cruciale nel pianificare gli stadi dei lavori, perché sanno dove l’acqua è più vicina, dove è più pulita, e dove le fonti si stanno esaurendo.”, spiegano a “Water Aid”, “A loro noi indichiamo misure igieniche, come il coprire l’acqua immagazzinata e l’usare rastrelliere per tenere piatti e utensili sollevati dal terreno.”

Lo status economico e sociale delle donne è in relazione anche all’accesso all’acqua pulita, in modi che sono d’importanza vitale in una prospettiva di genere. Se le bambine non devono più andare a prendere acqua possono andare a scuola, e se la scuola ha toilette decenti le ragazzine mestruate possono restarci. Le donne che hanno famiglie non oppresse da malattie correlate all’acqua possono lavorare al mercato e nei campi, migliorando il reddito familiare. Inoltre, possono assumere maggiori responsabilità all’interno della comunità, come Nakwetikya stessa testimonia: “Da quando abbiamo questa nuova fonte d’acqua la vita è cambiata in modo straordinario. Il mio status come donna ha avuto finalmente un riconoscimento (perché fa parte del “comitato acqua”, nda). Prima, gli uomini ci consideravano alla stregua di pipistrelli che svolazzano in giro. Nessuno ci permetteva di parlare o ascoltava quel che dicevamo. Adesso, quando mi alzo per parlare non sono un animale. Sono qualcuno che ha un’opinione valida.”

Le Nazioni Unite stimano che, entro il 2025, 48 paesi per una popolazione di 2 miliardi e 800.000 persone soffriranno per scarsità di acqua potabile. In questo momento, meno dell’1% dell’acqua corrente e potabile è accessibile all’uso umano diretto. La tendenza alla privatizzazione dell’acqua è pure preoccupante, perché ne innalza i prezzi e ne peggiora la distribuzione. Le donne restano nel quadro il segmento più vulnerabile, sia perché spesso lavorano in settori informali e non hanno le risorse per comprare acqua in mercati competitivi, sia perché appunto la privatizzazione rende l’acqua accessibile ancora più scarsa. Inoltre, sino a che i paesi industrializzati continuano ad inquinare fiumi ed altre fonti d’acqua con pesticidi e rifiuti tossici, le persone più povere del mondo – le donne – soffrono le conseguenze delle loro azioni mentre tentano di aver cura delle proprie famiglie. E’ per questo che ascoltare le loro voci, a tutti i livelli di governance, è così importante.

Determinazione e dignità



CAMFED – Campaign for Female Education è un’ong internazionale fondata da Ann Cotton nel 1991, con lo scopo di promuovere l’istruzione femminile in Africa. Nell’Africa sub-sahariana 24 milioni di bambine non possono permettersi di andare a scuola. Una ragazzina può essere moglie a 13 anni ed avere una probabilità su 20 di morire partorendo. Uno su sei dei suoi eventuali figli morirà prima di aver compiuto 5 anni.


Ma se una ragazza va a scuola guadagnerà il 25% in più con il suo lavoro e ne reinvestirà il 90% nella sua famiglia; avrà tre volte meno probabilità di diventare sieropositiva: avrà un minor numero di figli che saranno più sani ed avranno il 40% di probabilità in più di passare i cinque anni d’età.


Grazie al sostegno di Camfed, 602.405 bambine (e bambini) sono andate a scuola e 20.216 giovani donne hanno dato inizio a imprese economiche proprie. Le ex beneficiarie hanno anche fondato un’associazione interafricana affiliata, Cama, che ha di par suo mandato a scuola altre 161.300 bambine. Quella che segue è la storia di una di loro, Abigail Kaindu, raccontata dalla giornalista Brina Manenga per “The Post”, Zambia, il 13.9.2011. 
Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo


Mentre cresceva  nel villaggio di Chitembo, provincia di Luapula, la vita sembrava senza speranza ad Abigail Kaindu e l’avere un’istruzione un sogno lontano che non sarebbe mai diventato realtà. Ma grazie alla sua determinazione, Abigail ha pian piano realizzato quel sogno: in ottobre otterrà il suo diploma in economia, e nel suo villaggio questa 23enne è diventata un modello per molte giovani e giovanissime. Nella zona rurale in cui vive, Abigail ha sperimentato la povertà e il rigetto. Aveva 7 chilometri da fare ogni giorno a piedi per arrivare a scuola, ma ogni ostacolo sulla sua strada non faceva che rafforzarla nel suo convincimento che l’avere un’istruzione coincideva con la sua liberazione.

“La mamma morì quando io ero in terza elementare, e non ho mai incontrato mio padre. Mia nonna, che mi ha allevata, non poteva pagare le tasse scolastiche.”, ricorda Abigail. Nonostante tutto, la ragazza riuscì ad ottenere il diploma delle medie, ma la disponibilità economica della famiglia non poteva andare oltre.
“Allora pensavo che la mia vita fosse finita e tutto ciò che desideravo perduto. Avevo implorato il preside di lasciarmi presenziare alle lezioni anche dopo essere stata cacciata via perché non potevo pagarle: lui acconsentì ed anche se era difficile non ne mancavo mai una, è così che mi sono diplomata alle medie.”

Quando le ragazzine al villaggio lasciano la scuola, il passo successivo è quasi sempre il matrimonio, ma Abigail non voleva prendere quella via: “Camminavo con le lacrime agli occhi ogni giorno. La gente del villaggio diceva che perdevo tempo a crucciarmi per la scuola, e che sposarmi era la scelta migliore, ma sposarmi era l’ultima cosa a cui io pensavo.” Fu allora che Abigail venne a sapere del programma di “sponsorizzazione” di Camfed. “Fui la prima a registrarmi durante l’anno scolastico. Poi passò un po’ di tempo e avevo smesso persino di pensarci, ma durante le vacanze mi giunse la comunicazione che ero stata scelta. Ho pianto e pianto, non potevo crederci.”

Abigail è stata sostenuta sino al livello universitario ed è determinata a sollevare la sua famiglia dalla miseria: “Mi rende orgogliosa essere quella su cui si può contare. Moltissime ragazze al villaggio vogliono seguire il mio esempio, ora. Io sono la testimonianza vivente di ciò che l’istruzione può fare.”

La sua gratitudine va ovviamente a Camfed, ma c’è una persona che l’ha sostenuta in maniera particolare: “Sono molto riconoscente a mia nonna, che ha sacrificato il suo matrimonio per aver cura di me e di altri due orfani che ha allevato. Il nonno non voleva che vivessimo con lui, era solito dire che gli consumavamo il cibo. La nonna lo ha lasciato perché non voleva permettergli di cacciarci di casa.”

Il suo messaggio alle ragazze è questo: “Siate sempre concentrate e decise. La gente continuerà a dirvi che non potete farcela, ma invece potete eccome. Aprite il cuore alle opportunità e afferratele con dignità.

Io ti amerò comunque

Tratto da “Open Letter to My Unborn Daughter (or Son)”, di Staceyann Chin, scrittrice, poeta, attivista, 23.8.2011 – The Huffington Post. Trad. Maria G. Di Rienzo




Cara Figlia (o caro Figlio),

alcune persone sono preoccupate. (…) Pensano che sapere troppo sul tuo padre biologico, o saperne troppo poco, o avere una madre apertamente omosessuale, o due, ti causerà dolore non necessario. Ho preso in considerazione i loro input ed ho deciso di scriverti una lettera aperta su tutto questo.

Comincio con il riconoscere che ci saranno difficoltà nella tua vita: ognuno ne ha. E il mondo in cui viviamo è crudele, ingiusto e zeppo di diseguaglianze che tu finirai per conoscere sin troppo bene perché (ma non solo) sarai nera, figlia di un’immigrata lesbica rompiscatole, casinista e dissidente. La tua vita non comincerà in una condizione economica di benessere. E il modo in cui sei stata concepita ha dato inizio ad accese discussioni in cui i perfetti sconosciuti come gli amici hanno mostrato quanto sia complicato essere umani ed essere vivi nell’era dell’informazione.

Sono passati tre mesi da quando ho visto quella sbiadita seconda linea sul test di gravidanza fatto in casa. Non so bene cosa mi aspettassi, ma certamente non una corsa in salita contro il mio stesso corpo. Non voglio contrattare su questo. Sapevo bene che avresti cambiato la mia vita. Solo, non sapevo in che misura, ne’ quanto mi sarei sentita sola a percorrere questa strada senza una partner.

Non fraintendermi. Non ho alcun rimpianto. Lo rifarei immediatamente se questo significa che poi esploreremo questa vita in continua evoluzione insieme. Sto già meglio per l’aver deciso di cominciare il viaggio che mi porterà ad avere una famiglia. La speranza è tornata nel mio cuore. Sono in grado di veder miracoli nella vita quotidiana, di scoprire la celebrazione della più piccola delle vittorie. Ed ogni giorno in cui mi sveglio respirando, e tu fluttui dentro di me, sono grata e cerco modi di dimostrarlo.

Temo però di non star maneggiando gli aspetti fisici della gravidanza molto bene. Tutto in me sembra incerto, fluente: la mia pelle, il mio stomaco, i miei seni, le mie papille gustative, le mie viscere, le mie emozioni, la mia capacità di mangiare quello che desidero: ogni aspetto di me è diventato un imprevedibile allarme, qualcosa che minaccia ogni volta di andar storto. L’unica cosa che mi mantiene sana di mente e in grado di sopravvivere a qualsiasi disastro è la volontà di diventare tua madre. (…) Ma ti devo dire che quelle immagini di donne incinte che ho visto sui magazine e sui siti web sono decisamente fuorvianti. Io non ho avuto un singolo momento che assomigli alla calma totale di cui sono infuse. Da mesi, ormai, rigetto un pasto su due. Non riesco a dormire più di due ore consecutive, perché devo alzarmi a fare la pipì 4 volte per notte.
Nulla di piccante è passato attraverso le mie labbra giamaicane da dio sa quando. Posso passare dal sentirmi sazia al sentirmi affamata in tre minuti – e se non mangio immediatamente i conati di vomito che seguono mi lasciano a stento in grado di respirare distesa sul pavimento del bagno. I miei movimenti intestinali assomigliano un po’ all’economia mondiale: sforzi volonterosi largamente inutili.

Sto anche avendo i più creativi degli incubi. (…) Ho sognato di mettere al mondo un cucciolo, un pappagallo, un libro di poesie ed un bambino con la faccia (e le politiche) di George W. Bush. Alcune notti ho persino paura di addormentarmi, di sognare un qualche nuovo orrore da cui non riuscirò a svegliarmi. Sopporto tutto questo senza che ci sia nessuno a carezzarmi la schiena e i capelli, ad abbracciarmi gentilmente ricordandomi che gli incubi non sono reali. Perciò ogni volta in cui vedo la fotografia di qualche donna incinta con le mani posate soavemente sul ventre gonfio, che esibisce quel sorriso beato, sento l’urgenza di lottare con lei rotolando a terra, e di chiederle perché sta perpetuando la bugia che la gravidanza sia un processo privo di stress, in cui le donne diventano l’immagine della gioia perfetta. (…)

Inoltre, sono ossessionata dalle tue piccole mani, piedi e orecchie che si sono già formate dentro di me. Mi chiedo se tutto è come dovrebbe essere. E mi domando se sono già una cattiva madre a concentrarmi sulle dita, le ciglia o i reni che potresti avere o non avere. Inutile dirlo, in questo momento sono un completo disastro. Mi arrovello su qualsiasi cosa. Voglio che tu arrivi con tutte le tue parti al posto giusto. Voglio tu sappia che – nonostante quel che la gente dice del tuo concepimento tramite fecondazione assistita – io ti amo già, e mi preoccupo per te, e voglio il meglio per te. Voglio tu sappia che ho fatto una pletora di errori in vita mia, che ho urtato amanti, cugini e amici ed estranei. Non sono perfetta, e desidero scusarmi per tutti gli errori che ho già fatto con te, in special modo per quelli di cui non sono neppure consapevole.

E vorrei fare un patto con te: che tu ed io si sia d’accordo sull’essere comprensive, leali ed oneste, e piene di compassione l’una per l’altra, e per le persone che non sono proprio come noi vorremmo che fossero. Mi piacerebbe se tu ti unissi a noi nel contrastare gli ignoranti pieni di odio che vogliono togliere alle donne i diritti riproduttivi, o che etichettano e valutano le persone basandosi sul colore della loro pelle, o su che compagni scelgono, o sulla parte di mondo da cui provengono. Crescendo, ti accorgerai che persone spaventose e potenti hanno ridotto ad una parodia il nostro bellissimo pianeta, e che le ideologie socio-politiche che controllano i nostri modi di vivere sono di mente ristretta e condite di bigottismo.

Sarebbe una dolce vendetta crescere una figlia o un figlio che durante la sua vita tenterà di disfare tutto questo. Ma ti prometto che anche se sceglierai di non farlo, io ti amerò comunque. Ce la metterò tutta nel sostenerti mentre ti farai strada nel mondo; tenterò di sorridere prendendo un morso dal tuo sandwich mezzo mangiato e pieno di saliva; ti festeggerò in ogni caso, che tu sia no al primo posto; sarò presente nei momenti importanti della tua vita e ti lascerò sempre spazio per esplorare ciò che vuoi essere.

Creatura mia, queste promesse sono solo ciò che io intendo fare. Ti garantisco il permesso, quando verrò meno a queste grandiose intenzioni, di sventolarmi davanti questa lettera e di ricordarmi cos’ho scritto molto tempo prima che tu nascessi. Con amore, e nella speranza che tu arrivi sana e salva, tua madre Staceyann Chin.