Lettera alle mie figlie

Il giorno in cui Fawzia Koofi nacque, sua madre la espose al sole bruciante dell’Afghanistan affinché morisse. Era la diciannovesima nascita in una famiglia con sette mogli (il totale dei figli sarebbe poi ammontato a 23) e sua madre non voleva un’altra femmina.
Nonostante le terribili ustioni, le cui cicatrici l’avrebbero accompagnata sino all’adolescenza, Fawzia sopravvisse e divenne per sua madre la figlia prediletta. Quando il padre, un uomo politico tradizionalista, fu assassinato dai mujahedin, la madre analfabeta di Fawzia decise di mandare la figlia ormai decenne a scuola; mentre la guerra civile infuriava, Fawzia schivava pallottole vaganti e cecchini e presenziava inflessibilmente alle lezioni, conscia di essere la prima persona della sua famiglia che stava ricevendo un’istruzione.

Successivamente sposò l’uomo che amava ed ebbe due figlie desiderate, Shohra e Shaharzad. L’ascesa al potere dei talebani mise fine alla sua libertà, ma non alla sua volontà di contrastare l’ingiustizia e di realizzare i suoi sogni. Così Fawzia divenne un’attivista e una donna politica. Ha lavorato per l’Unicef e per svariate ogn come difensora dei diritti umani di donne e bambini. E’ attualmente membro del parlamento afgano e correrà per la presidenza del paese nel 2014.

Tutto questo lo racconta in “Lettere alle mie figlie”, che sta scrivendo assieme a Nadene Ghouri, giornalista che ha lavorato per la BBC e Al Jazeera: “Il mio libro è in realtà una lettera al mondo. Alcuni lettori potranno trovare la mia storia triste o deprimente, o forse troppo personale perché solleva questioni relative alla mia famiglia ed alla mia vita. In più, potrebbero esserci persone a cui non piacerà la natura rivelatrice di quanto ho da raccontare sulle donne e sulla mia comunità: alcuni diranno che mi lamento o che tradisco. Ma è un rischio che mi sento di assumere a beneficio del mio bellissimo paese, il nostro Afghanistan. Quando una donna obietta rispetto alla vita che conduce è considerata una disgrazia per la sua famiglia, ma io l’ho fatto ugualmente. Ho appuntato il mio cuore alla mia manica, rivelando in onestà e integralmente la verità del mio viaggio. Ho percorso una lunga strada irta di difficoltà, sfide e tristezze, dai miei umili inizi quale figlia femmina in una società misogina che non dà valore alle voci femminili, ad essere una voce per la vulnerabile e vittimizzata comunità delle donne afgane di oggi. La mia lotta è cominciata il giorno in cui sono nata.

“Lettere alle mie figlie” non è la storia della mia vita. E’ la storia della vita di ogni donna afgana. Ho documentato la nostra storia di vita per disegnare una chiara immagine delle nostre lotte, di modo che il mondo capisca cosa stiamo passando e cosa è effettivamente  minacciato. Questa storia è come un oceano che mi sono portata sulle spalle per decenni, per l’intera mia esistenza. Ho sentito che era il momento giusto per renderla in parole.”

Maria G. Di Rienzo

Il sito di Fawzia Koofi:  http://www.fawziakoofi.org 

Se parliamo la lingua materna

C’erano una volta le babaylan (“donne mistiche”), le specialiste della comunità filippina nei campi della cultura, della religione, della medicina e della conoscenza dei fenomeni naturali, chiamate ad istruirsi per rivestire questo ruolo onorato da un sogno, da un’esperienza traumatica o da una babaylan più anziana. Prima dell’invasione degli spagnoli nel sedicesimo secolo, queste donne erano il perno sociale e spirituale dei loro gruppi… Ma no, non vi sto raccontando una fiaba. Le babaylan, anche se in minor numero di un tempo, ci sono ancora. E il cuore del loro insegnamento, il centro di una visione olistica che non crea immagini del divino poiché “siamo tutti un unico respiro, e dio è in ciascuno di noi”, è la risoluzione nonviolenta dei conflitti.

Aperte a tutto ciò che è buono e che aiuta la vita, hanno incorporato il messaggio di pace cristiano nei loro canti di preghiera: traducendolo nei linguaggi nativi, perché “dio ci capisce se parliamo la lingua materna”. L’educazione alla pace fornita dalle babaylan comincia molto presto, diretta ai bambini. Ciascuna bimba o bimbo apprende a maneggiare il conflitto in modi appropriati a seconda che esso si dia tra i suoi pari, con le persone adulte e le babaylan stesse; violenza e guerra sono ovviamente escluse da questa visione, perché distruggono e non gettano ponti. Il concetto di base è che non potremo andare con grazia e gentilezza sul ponte che attraverseremo dopo la morte (“tumatawid”), ne’ trovare guida durante il passaggio, se non abbiamo amato e curato in questa vita, che è sacra.

E poiché tutta la vita è sacra proteggere gli animali, l’acqua, la terra, l’aria sono compiti irrinunciabili: le babaylan odierne sono ecologiste che hanno dato più di un filo da torcere a chi voleva e vuole deforestare o devastare i loro ambienti naturali. “Non può essere altrimenti.”, dicono, “Quando ci tolgono la foresta, strappano dio via da noi. Poiché tutto è interconnesso, la pace e la giustizia sono ingredienti indispensabili per la vita sulla terra.” Forse state immaginando un mucchietto di donne prive di vero potere, illetterate e confinate in remoti villaggi, ma le babaylan valutano l’istruzione quanto il bilanciamento, ed il mantenimento delle loro tradizioni non confligge con l’apprendere cose nuove. Una babaylan odierna è per esempio l’ecologista Kunthala Lahiri-Dutt, attivista di punta delle lotte ambientaliste delle comunità locali, esperta delle istanze relative all’acqua ed al mantenimento degli ecosistemi. Kunthala lavora per diverse università locali ed estere, ed è presente come specialista nel “Programma per il maneggio delle risorse naturali nell’Asia del Pacifico”.


La preparazione per diventare una babaylan è lunga, poiché abbraccia diversi campi, ed incorpora in una sola figura i ruoli di sacerdotessa, guaritrice, saggia e profetessa. I sette valori che un’aspirante babaylan deve conoscere e maneggiare, però, credo possano essere d’ispirazione anche a noi.

1) “Kalooban at patotoo”: imparare ad essere umani, a definire se stessi come umani. La manifestazione della verità e dell’integrità del sé, il piantare i semi della coscienza. Quando questo attributo spirituale è presente, le persone si muovono verso “ginhawa” (il benessere, l’essere a proprio agio), i cui significati operativi concreti si traducono nel lavorare ed apprendere assieme agli altri, amandoli della loro umanità, che noi condividiamo.

2) “Kabuhayan at kaalwanan”: imparare a fare, a nutrire l’intelligenza che in noi sostiene la vita. Il capire che il godere di salute e cose buone avviene per condivisione e inclusione e che un’esistenza umana “sostenibile” per il pianeta basa sulla reciprocità.

3) “Karunungan at kaalmang-bayan”: imparare ad imparare! Il nutrire insieme la nostra conoscenza collettiva. La vita ci insegna come si fa, sostengono le babaylan, e ripete le sue lezioni sino a che non le comprendiamo. Perciò noi impareremo dalle esperienze che facciamo con i nostri cari, nelle nostre famiglie e nelle nostre città; impareremo dalla storia, dalle radici e dai significati che erano esplicita conoscenza tanto tempo fa; impareremo dai nuovi modelli che emergono, dalle reti locali, nazionali, e globali. La dott. Maria Luisa Canieso Doronila, che ha compiuto studi antropologici sulle comunità indigene, parla di come le babaylan incoraggino in esse una sorta di “intelligenza multipla” che sviluppa alti livelli di conoscenza (linguistica-verbale, corporea, logica-matematica, intrapersonale, artistica, ecc.) anche in persone che vivono in condizioni di povertà.

4) “Kapwa at kapatiran”: imparare a vivere e lavorare insieme come un popolo compassionevole. E’ il riconoscimento delle differenze e del loro valore, il vederle all’interno del proprio gruppo. Poiché i termini dell’interazione (“kapwa”) sono non sessisti e non gerarchici, le babaylan ad esempio, in presenza di violazioni che riguardano le donne, hanno un rituale di guarigione che prevede la narrazione della loro storia e la promessa da parte della loro comunità di trasformare le pratiche patriarcali in azioni positive.

5) “Pagkakaisa at pamathalaan”: imparare a realizzare una visione ed una missione collettive. Secondo la babaylan Marianita Girlie C. Villariba si tratta di qualcosa di molto simile alla “fronesis” di Aristotele. Si tratta della capacità di interpretare la situazione politica in cui viviamo e di decidere che azioni intraprendere al proposito. “Nessuno di noi da solo è buono quanto tutti noi insieme”.

6) “Lakas at tibay ng loob”: imparare a sostenerci spiritualmente. In sostanza si tratta di coltivare una certa “forza di carattere”. A Marianita Villariba questo aspetto fu particolarmente utile durante gli anni ’70, quando resisteva come attivista all’oppressione del governo militare. “Una cosa che ho appreso è che non avevo necessità di “purificare le mie motivazioni”: una delle trappole in cui cadiamo come attivisti è spesso quella del martire, del servizio totale ad una causa, che può renderci ciechi, anche a livello spirituale. Ho riconosciuto che la verità ha molte motivazioni, molte ma non uguali, non intercambiabili, e che la rabbia verso l’ingiustizia va “organizzata”, altrimenti sarà essa a guidarci e non noi a servircene come stimolo.”

7) “Bathala na”: imparare a sviluppare il dono finale della perseveranza, della continuità. “Bathala” significa dio. “Bathala na” è la determinazione che si erge davanti all’incertezza, è il coraggio di dedicarsi alla pace ed alla giustizia. E’ il punto finale di una filosofia sistemica che vive la Terra come spazio sacro e casa di diversi popoli e gruppi, e dove chi è guida politica lo è fino a che lega i suoi atti al rispetto ed alla reciprocità.

Maria G. Di Rienzo

Lezioni d’amore e di cucina

Di Deborah Block per Voice of America, 28 giugno 2011, trad. Maria G. Di Rienzo

Per undici anni la Sierra Leone, paese dell’Africa occidentale, è stata devastata dalla guerra civile. La guerra ebbe inizio nel 1991 quando un gruppo ribelle, chiamato il Fronte rivoluzionario unito, lanciò una campagna per controllare i ricchi giacimenti di diamanti del paese. I ribelli assalivano i civili nei villaggi, usando machete ed asce per tagliar loro braccia, gambe, labbra e orecchie.

Damba Koroma aveva solo cinque anni, nel 1997, quando i ribelli le tagliarono il braccio sinistro. Più tardi, da bambina, fu portata negli Usa, dove ha appena terminato le scuole superiori. Sul braccio sinistro una mano dalle unghie perfette, sull’altro solo il ricordo. Ma Damba Koroma non indugia nel passato. Cucinare è una delle sue passioni: qualche giorno prima di ricevere il diploma se la gode nel preparare un’insalata durante la lezione di cucina. Usa allo scopo delle protesi speciali. “Trovo splendido il riuscire a produrre qualcosa di veramente buono e gustoso che altre persone ed io ameremo mangiare.”, dice.

L’insegnante Craig Scheuerman l’ha aiutata a procurarsi le protesi, che sono state donate da una fondazione non-profit. Dice che Koroma è la studente migliore che lui abbia mai avuto: “Pensavo che lei fosse disabile, ma adesso mi è chiaro che non lo è. E’ fenomenale in cucina. Riesce a lavorare alla stessa velocità di chi ha due mani.” I suoi compagni di classe sono d’accordo, e dicono che è sempre disposta ad aiutare gli altri. Daryl Hale afferma di essere impressionata da come Damba sia una “buona persona da qualunque parte la si osservi”. Josoph Jackson aggiunge che è volonterosa nel condividere le sue conoscenze con tutti.

Damba Koroma ricorda il giorno in cui i ribelli attaccarono il suo villaggio, chiedendo danaro a sua madre che non ne aveva. Il capo del gruppo disse che avrebbe fatto della bambina un esempio, di modo che tutti sapessero cosa sarebbe accaduto se non avessero soddisfatto le sue richieste. “Tagliarono via il mio braccio sinistro, e lo stesso fecero a mia madre e a molte altre persone del villaggio.” Damba spiega che ci vollero tre interi giorni, alla sua famiglia, per riuscire a raggiungere un ospedale nel mezzo del caos. Dopo di ciò, Damba ha passato tre anni viaggiando da un campo profughi all’altro. “Mia madre ed io, durante il giorno, entravano nelle città fuori dalle quali eravamo accampate, mendicando i soldi per il cibo.”

Nel 2000, mentre si trovavano in un campo per amputati, a Damba fu offerta l’opportunità di ottenere un braccio artificiale negli Usa. Ma ad operazione terminata, la bambina era terrorizzata all’idea di tornare in Sierra Leone. Quando la sua storia divenne nota al pubblico, Sahr Pombor e sua moglie Josephine si fecero avanti per diventare i suoi tutori ad Alexandria, in Virginia: “Non riuscivo neppure a pensare a quanto dolore aveva sopportato. Mi lacerava e basta.” La coppia di freschi sposi provenienti dalla Sierra Leone, fuggiti negli Stati Uniti a causa del conflitto, ha avuto successivamente tre bambine proprie. Josephine Pombor ricorda che fu sua sorella a darle consigli su come aiutare Damba: “Prendi quella mano e baciala, mi diceva, non devi dirle altro se non che la ami, e questo l’ho fatto di continuo. Mano a mano che cresceva, diventata sempre più fiduciosa in se stessa.”

Damba dice che non prova amarezza: “Anche se ho una sola mano, anche se ho un passato decisamente duro, non permetterò a questo di impedirmi di fare ciò che voglio fare.” lo scorso aprile la ragazza è tornata in Sierra Leone per la prima volta. Ha incontrato altri amputati e parlato agli studenti sul fatto che non bisogna mai darsi per vinti. Si è riunita alla madre e agli membri della sua famiglia: “Ero a casa. Ed era come se ci fossi sempre stata, anche se non li avevo visti per quasi undici anni.”

Damba Koroma entrerà all’università fra pochi mesi. Desidera studiare sviluppo e relazioni internazionali. La Sierra Leone, spiega, si sta ricostruendo dopo la guerra. La giovane spera di aiutare a mettere in piedi un ospedale per donne e bambini nel paese: “Aiutare gli altri è una passione, per me, perché è un modo per restituire quanto mi è stato dato. Così tante persone hanno aiutato me lungo la strada.”

Il mondo chiude un occhio


“Sono stata costretta a lasciare la scuola a 10 anni perché mi hanno data in moglie. Dopo 8 mesi ero divorziata. Vorrei che nessun’altra bambina soffrisse quello che io ho sofferto.” Madina, oggi 14enne, Sudan.

Ogni anno 10 milioni di bambine vanno spose. Dappertutto, senza che il continente, la cultura, la religione o la classe sociale facciano differenza. Spose di cinque anni, sposi di cinquanta. Bambine violentate per essere reclamate come mogli. Un debito pagato con una bimba di otto anni, una faida familiare risolta con la consegna di una dodicenne.

Se hai rapporti sessuali prematuri, arrivano le fistole se sei fortunata (si fa per dire) e il decesso per emorragia se lo sei meno. Se partorisci a quindici anni, hai cinque volte tanto la probabilità di morire nel processo di una ragazza di venti e tuo figlio ha il 60% di probabilità in più di non arrivare al primo anno d’età. Ma qualcuno mi ha chiesto se c’è davvero bisogno di dire, ancora, che le donne sono esseri umani e che per questo hanno diritti umani.

Si stima che attualmente le bambine-soldato al mondo siano 100.000. In genere rapite fra i 10 ed i 14 anni, si rivelano utilissime: possono portate fucili in spalla di giorno e rallegrare sessualmente interi accampamenti la notte. A differenza dei loro coetanei di sesso maschile, queste ragazzine suscitano poca compassione: se e quando riescono a lasciare le milizie, le loro comunità e famiglie non sono inclini a riaccoglierle, perché portano lo stigma delle violenze che hanno subito e le più grandi hanno magari già un figlio o due a cui non si sa cosa dar da mangiare. “Mio padre non vuole più vedermi perché della gente gli ha detto che i soldati hanno abusato di me.” è la testimonianza più frequente.

Molte muoiono di malattie a trasmissione sessuale. Alcune tornano dai gruppi armati perché persino essere schiave è meglio che crepare dell’indifferenza e del piccato sdegno altrui. Altre diventano prostitute in proprio. A 15 anni. Però qualcuno si chiede se c’è davvero necessità di ripetere che le donne sono esseri umani e che per questo hanno diritti umani.

In Afghanistan, ad esempio, il dibattito su quanti e quali diritti hanno le bambine si svolge così: se vanno a scuola si getta loro acido in faccia, gli si bruciano le scuole stesse e si ammazzano i loro insegnanti, uomini e donne che sono così poco rispettosi della loro stessa cultura da far veramente arrabbiare gli intellettuali nostrani (l’ultima vittima in ordine di tempo è Khan Mohammad, preside della scuola femminile Porak nella provincia di Logar, la cui testa è stata fatta esplodere a colpi d’arma da fuoco il 25 maggio 2011. I talebani lo avevano avvisato parecchie volte che alle bambine non si insegna, ma non ha voluto capire.). A scuola le bimbe non possono andare, ma a portar bombe sì. Le tradizioni devono evidentemente permetterlo. Solo durante il mese scorso hanno raggiunto le cronache le storie di due bambine-kamizake afgane, rapite alle loro famiglie in miseria, drogate ed imbottite di esplosivo. La prima, nove anni, è stata fermata in tempo; la seconda, otto anni, è stata fatta saltare in aria dagli attentatori il 26 giugno 2011.

In India ci si pensa per tempo. Non solo ne mancano 50 milioni, di questi esseri – le donne – che chissà perché mi ostino a credere umane e perciò portatrici di diritti umani, ma quelle restanti sono ancora troppe: i genitori le convertono in “maschi” con una plastica ai genitali. E’ un’industria fiorente ed in piena espansione, le famiglie si indebitano pur di pagare i 2 o 3mila euro per l’operazione. Una mezza dozzina di chirurghi dalla faccia di bronzo hanno dichiarato pubblicamente di aver “trasformato” ciascuno centinaia di bambine ogni anno (spesso si tratta di bambine di dodici mesi o poco più). A queste infanti viene costruito un “pene” usando i tessuti dei loro organi genitali, dopo di che gli si danno dei bei biberon di ormoni. Non potranno generare, avranno problemi di salute per tutta la vita, sono state derubate della loro stessa identità, ma chi se ne frega, almeno non sono femmine.

Ogni giorno sui giornali italiani spuntano i trafiletti che narrano di bambine e ragazzine violate, umiliate, picchiate, molte volte da ragazzi poco più grandi di loro: spuntano un giorno e spariscono il giorno dopo. Forse per rispetto alla nostra cultura. O forse perché qualcuno potrebbe chiedersi se è lecito trattare così degli esseri umani. Ma c’è proprio ancora bisogno di arrecare disturbo ripetendo che le donne fanno parte della specie umana? E’ così evidente che non è vero. Maria G. Di Rienzo

(Fonti: The Guardian, rapporto 2011 “Breaking Vows” dell’ong Plan UK, India Times, Hindustan Times, National Geographic, Institute for War & Peace Reporting, UN Women)