La “Steppa Verde” di Svetlana e Rosa

Tratto da un più ampio servizio di Leanne A. Grossman, “A Matter of Life and Health: Villagers in Kazakhstan Fight Big Oil”
7 novembre 2011, per Women International Perspective, Trad. Maria G. Di Rienzo


Leanne A. Grossman è una scrittrice-viaggiatrice che ha documentato le prospettive e le preoccupazioni delle donne in Africa, Asia, Europa ed America Latina. E’ fra le fondatrici di “Girl Child Network Worldwide” che si occupa delle bambine vittime di violenza sessuale in tutto il mondo. 


Il tossico odore di uova marce soffia regolarmente sul villaggio rurale di Berezovka, in Kazakistan. I fumi vengono direttamente dal campo estrattivo di petrolio e gas di Karachaganak, a cinque chilometri di distanza: sono le emissioni di solfato d’idrogeno correlate all’estrazione ed alla raffinazione dei prodotti. Il campo è stato costruito dal  Karachaganak Petroleum Operating (KPO), un consorzio fra alcune delle più facoltose compagnie commerciali che si occupano di energia: LUKOIL (Russia), BG Group (Gran Bretagna), ENI Agip (Italia) e Chevron (Stati Uniti). Nel 1997 il KPO ha siglato un accordo con il governo kazako che permette le operazioni di raffinazione in loco.

Le circa 1.300 persone che vivono vicino all’impianto soffrono di emicranie e brividi, perdono i capelli, la loro vista si deteriora e sviluppano l’anemia. Svetlana Anosova, residente del villaggio, insegnante di musica, madre di tre figli e nonna di svariati nipoti, descrive altri problemi di salute che si pensa siano collegati ai cambiamenti ambientali imposti dall’impianto petrolifero: malattie ai reni, problemi digestivi, perdita dell’udito. Sua figlia è diventata epilettica, e lei teme che sia il risultato dell’inquinamento proveniente dal campo estrattivo, ma non può provarlo.

Poiché le strutture sanitarie locali sono limitate, Rosa Khusainova, direttrice della Casa della Cultura e madre di due figli, ha dovuto chiedere un prestito per pagare i trasporti e i costi relativi alle cure mediche della figlia, coperta da gravi eruzioni cutanee. Quando uno dei medici le ha chiesto perché non si trasferisce Rosa ha replicato: “Non ho il denaro per muovermi, ne’ un altro posto dove andare. Io sono di Berezovka, perché dovrei trasferirmi? E’ la compagnia petrolifera che se ne dovrebbe andare.”

Per nove lunghi anni Svetlana e Rosa hanno organizzato gli abitanti del villaggio affinché usassero ogni strategia legale accessibile per proteggere le loro famiglie e avere giustizia. Il solo raccogliere informazioni è una grossa sfida in un paese in cui gli uffici governativi sono storicamente costruiti sulla segretezza. Zhasil Dala (Steppa Verde), l’organizzazione che Svetlana e Rosa hanno fondato, ha dovuto condurre da sé le ricerche sull’avvelenamento dell’ambiente. L’inquinamento dell’aria non è l’unico problema. I residenti del villaggio hanno visto mutazioni nelle loro coltivazioni: il livello di cadmio nel suolo è almeno due o tre volte più alto del normale. L’avvelenamento da cadmio causa stordimento, mal di testa, debolezza, dolori al petto e infine edema polmonare. Anche gli alti livelli di nitrati preoccupano i residenti. Le emissioni provenienti dal campo estrattivo sono sospettate di aver aumentato tali livelli nelle fonti d’acqua e nel terreno. Quando gli abitanti del villaggio hanno mandato campioni d’acqua ad un laboratorio indipendente ad Orenburg, in Russia, i risultati hanno mostrato che essa non è potabile. I campioni di aria inviati ad un altro laboratorio indipendente in California hanno confermato la presenza di 25 elementi chimici tossici nell’aria di Berezovka.

La maggioranza dei residenti oggi vuol essere ricollocata in un ambiente pulito e sicuro, lontano dal campo d’estrazione. Tramite “Steppa Verde” hanno indirizzato proteste formali ed informali al consorzio ed al governo chiedendo che il loro diritto umano di vivere in una zona sana sia rispettato. Nel 2003, il  costante e coraggioso impegno di Svetlana Anosova attirò l’attenzione della BBC che all’epoca commentò: “Ciò che è certo, è che nell’ex Unione Sovietica ci sono migliaia e migliaia di persone come Svetlana che dal libero mercato non hanno avuto beneficio alcuno.”

Nel gennaio 2011, Serik Ilyasov, un lavoratore agli impianti, fu ucciso sul colpo (ed un suo collega gravemente ferito) quando un guasto agli idranti rilasciò una gran quantità di solfato d’idrogeno. Le indagini mostrarono che solo 25 idranti avevano dispositivi di sicurezza: nonostante la promessa che le operazioni a Karachaganak sono svolte usando la miglior tecnologia disponibile, il consorzio KPO non si cura della sicurezza dei suoi lavoratori più di quanto si curi della sicurezza dei residenti all’esterno del campo. Sebbene nel paese esista una legislazione che protegge l’ambiente, KPO la ignora. Quando le loro violazioni delle leggi ambientali diventano palesi, come nel caso delle improvvise eruzioni di gas, si appellano a cavilli burocratici per non far proseguire le cause legali, e persino quando sono condannati e devono pagare delle multe i soldi non arrivano mai ai residenti del villaggio: restano al corrotto governo nazionale. Perciò, il governo non ha alcun incentivo a fermare l’inquinamento facendo pressione sulle compagnie petrolifere affinché rispettino i regolamenti.

Lo scorso anno i residenti di Berezovka hanno avuto un’altra sorpresa: nel loro suolo si aprono crateri (un effetto che si sa associato all’estrazione di petrolio). “Adesso ho paura di vivere in casa mia.”, dice Nagaisha Demesheva, che ha scoperto un cratere nella sua piccola proprietà nel dicembre 2010. Immaginatevi se fosse successo alla villa di John Watson della Chevron o di Vagit Alekperov della Lukoil, il sesto uomo più ricco della Russia. E’ proprio vero che non siamo tutti eguali.

“Steppa Verde” ha tentato di aver giustizia tramite gli investitori del KPO. Ma dopo tre proteste formali alla Banca Mondiale, che ha prestato 150 milioni di dollari per il progetto petrolifero nel Kazakistan, Svetlana e Rosa hanno deciso che non perderanno più tempo a presentare il caso in simili uffici: hanno scoperto che per quanto i funzionari esprimano loro simpatia, nessuna azione concreta viene intrapresa per migliorare o risolvere la loro situazione. Dovendo fronteggiare oppositori a più livelli impiegano tecniche molteplici e  flessibili: ad esempio, alleandosi con “Salvezza Verde”, un’ong nonprofit del Kazakistan, il loro gruppo ha denunciato legalmente il governo per il fallimento nel proteggere i suoi cittadini. Due famiglie e un’impresa commerciale hanno vinto in tribunale il diritto di essere collocati altrove. E’ un precedente significativo, sebbene non ci siano ancora segni di implementazione della sentenza. Ad ogni modo, i residenti di Berezovka non saranno soddisfatti sino a che tutti non saranno ricollocati in un’area sicura, distanti dalle emissioni tossiche che stanno rovinando le loro vite.

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Aral, Cronaca della morte di un mare

Donne, guerra e pace

Di Abigail Disney, Trad. Maria G. Di Rienzo

L’11 ottobre scorso, commentando l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a tre donne, Abigail Disney ha presentato il suo nuovo lavoro. Abigail è l’autrice del film “Pray the devil back to hell” che documenta la lotta per la pace delle donne liberiane. Ora ha creato “Women, War and Peace”, una serie televisiva in cinque puntate che narra i ruoli delle donne nei contesti di conflitto armato, in onda dall’11 ottobre all’8 novembre.




Cinque anni fa, quando andai in Liberia, non avevo idea che il mio ruolo successivo sarebbe stato documentare e celebrare le donne che costruiscono la pace. Ma una storia di lotta e trionfo dopo l’altra, una storia di guida e sopravvivenza dopo l’altra, seppi che c’era qualcosa sotto la superficie della liberazione del paese che necessitava di essere portato alla luce.
Due anni più tardi, uscì il documentario “Pray the Devil Back to Hell”: parla di un gruppo di donne coraggiose ed ispirate – in semplici magliette bianche – che uniscono le loro forze attraversando regioni e religioni, per chiedere la pace. La loro leader, Leymah Gbowee, era  intuitiva e innovativa. I suoi piani brillanti, le sue tecniche semplici ed efficaci, ed il messaggio diretto: le donne liberiane vogliono la pace.

Oggi è un giorno di cui tener nota, che celebra donne notevoli. L’attivista e giornalista Tawakkul Karman è la prima donna araba a vincere il Premio Nobel per la Pace. E’ stata detenuta in Yemen all’inizio di quest’anno e ha detto che il riconoscimento a lei conferito è una vittoria per il suo paese e per l’intera “primavera araba”. Ellen Johnson Sirleaf è stata premiata con il Nobel per aver condotto in avanti un paese devastato. Leymah Gbowee ha vinto in nome di tutte le sue sorelle nei movimenti pacifisti dell’Africa occidentale.


Ci sono delle Leymah, delle Ellen e delle Tawakkul in tutto il mondo. Ed è sperabile che questo primo riconoscimento farà vedere quanto trasformative sono le donne per la pace e la democrazia. Dopo il documentario, ho capito quale era il mio compito: raccontare le storie delle donne che costruiscono la pace. Il risultato è “Women, War e Peace”, che va in onda sulla rete PBS. Nel costruire la serie televisiva con le co-creatrici Pamela Hogan e Gini Reticker, ho avuto il privilegio di conoscere alcune di queste costruttrici di pace.
Tramite loro, e tramite anni di ricerche, ho finito per comprendere cosa significa costruire la pace. Cosa connette le costruttrici nella decisione collettiva del creare la pace nei loro rispettivi paesi. Come individui sono tutte speciali ed uniche, ma come costruttrici di pace mettono radici nella somiglianza con le altre. Sono orientate all’azione, “fattrici”, creatrici. Coloro che costruiscono la pace si guardano intorno e non solo credono ci si possa muovere fuori dalla guerra e dal caos, ma prendono decisioni per portarci là. La pace è la scelta attiva di vivere in comunione con gli altri.
So che tutti noi possiamo svolgere un ruolo nei movimenti che costruiscono la pace. Possiamo essere tutti costruttori di pace: di taglia piccola, media o grande. Possiamo respingere l’estetica della violenza e l’infinita romanticizzazione del combattimento che sta alle fondamenta del complesso industriale hollywoodiano. Possiamo scegliere di agire. Imparare di più. Fare di più. Possiamo scegliere di vivere nella comunità globale costruendo pace.
Oggi è un giorno straordinario per le donne costruttrici di pace. Facciamo in modo che non sia l’ultimo.

Lettera aperta alle Nazioni Unite


Dobbiamo essere uniti. La violenza contro le donne non può essere tollerata, in nessuna forma, in nessun contesto, in nessuna circostanza, da nessun leader politico e da nessun governo.” Ban Ki-Moon, Segretario Generale delle Nazioni Unite.

Egregio Segretario Generale,
chi si permette di scriverle è una cittadina italiana che ha letto e riletto non solo quella sua dichiarazione summenzionata, ma gli innumerevoli impegni internazionali sottoscritti in tal senso dal paese in cui vive. A dar retta alle carte, dovrei trovarmi in un paese civile. Peccato che esso abbia la più alta incidenza europea di donne assassinate dalla violenza domestica: una ogni 2/3 giorni. Peccato che i Centri antiviolenza italiani abbiano cessato di essere finanziati e molti stiano chiudendo. Peccato che le immagini delle donne proposte dai media e dagli annunci pubblicitari italiani siano largamente sessiste e pornografiche. Peccato che una donna italiana, a parità di qualifica e mansioni, guadagni dal 10 al 18% in meno del suo collega di sesso maschile. Peccato che oggi, 6 ottobre 2011, si seppelliscano delle giovani donne morte sul lavoro: un lavoro “in nero”, fino a 14 ore al giorno per meno di quattro euro l’ora. Peccato che l’Italia detenga anche l’infame record della percentuale più alta di donne molestate sul lavoro in Europa. Peccato che, sulla scia di altre sentenze relative alla violenza sessuale che hanno già svergognato questo paese di fronte al mondo intero, di recente un tribunale abbia definito il palpeggiamento di studentesse minorenni da parte di un loro docente un mero “corteggiamento invasivo”.
Poiché questa è una lettera aperta, ripeterò in breve delle cose che le sono note, e cioè che la violenza è un modo per controllare le donne, sia nelle famiglie sia nella società, e tenerle in una posizione subordinata agli uomini, e che la violenza contro le donne non è accidentale: è strutturale, e perciò sono strutturali le soluzioni per eliminarla. Leggi inadeguate, immagini mediatiche negative, mancanza di servizi, compiacenza dei governi e assenza di programmi che affrontino le cause e le conseguenze della violenza di genere non fanno che aumentare la dose di violenza di cui le donne fanno esperienza.
La struttura della violenza, come lei sa, non nasce dal nulla e la sua crescita è un’escalation in cui, ad esempio, suggerendo che la prostituzione sia innocente divertimento per chi ne usufruisce e occasione di posizionamento sociale per chi la esercita, che comprare il corpo di una donna sia normale e lecito, e rappresentando ossessivamente le donne come oggetti sessuali, si crea il “contesto culturale” favorevole a ridurre donne e bambine a semplici giocattoli per gli uomini. E se poi il giocattolo si rompe, sig. Segretario, diventa difficile biasimare chi l’ha rotto: un giocattolo non è un essere umano.
Oggi, il nostro Presidente del Consiglio annuncia l’intenzione di cambiare nome al suo partito: potrebbe chiamarlo, dice, “Forza Gnocca”. Si tratta dello stesso uomo che spende centinaia di migliaia di euro l’anno per i suoi festini con prostitute, il proprietario di gran parte dei media in cui le donne sono per lo più pezzi di anatomia in mostra, l’autore di dichiarazioni volgari e offensive su altri capi di stato di sesso femminile e sulle donne in generale. I membri del suo governo e della sua coalizione non sono da meno. Potrà trovare riscontro di quanto le dico sulla stampa internazionale, qui mi limito a citarle il Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali che, il mese scorso, “spiega” così, in pubblico, la manovra economica: “In un convento irrompono dei briganti e violentano tutte le suore. Una sola viene risparmiata. Perché ha detto di no.”
Suggerire che le donne desiderino lo stupro, che la violenza sessuale subita sia loro responsabilità e che potrebbero evitarla con un “no” è cosa, dicono i sostenitori del Ministro, di cui dovrei ridere. In Italia si stuprano 4 donne al giorno ed io non lo trovo divertente.
Considerato l’atteggiamento del governo italiano nei confronti della violenza di genere io credo che le Nazioni Unite, di cui l’Italia è stato membro, possano e debbano fornire ad esso almeno delle raccomandazioni, fra cui l’adozione del Piano antiviolenza divisato dall’Agenzia Donne delle NU. La prego, pertanto, di fare quanto in suo potere perché ciò avvenga. Una presa di posizione da parte di un organismo così autorevole potrebbe dar sostegno e speranza a chi lavora ogni giorno per mettere fine alla violenza e restituire dignità alle sue vittime.

Con profondo rispetto, Maria G. Di Rienzo

Wangari Maathai. Guarire la Terra, guarire noi stessi

Wangari Maathai, Premio Nobel per la Pace nel 2004, è scomparsa il 25 settembre 2011. In questo saggio tratto dal suo libro “Replenishing the Earth: Spiritual Values for Healing Ourselves and the World”, descrive cosa motivò il suo eccezionale lavoro. (Tratto da “Yes! Magazine”, 26.9.2011, trad. Maria G. Di Rienzo)

Durante i trent’anni e più che ho passato come ambientalista e attivista per i diritti democratici, la gente mi ha spesso chiesto se la spiritualità, differenti tradizioni religiose e la Bibbia in particolare mi avessero ispirato, ed avessero influenzato il mio impegno o il lavoro con il Green Belt Movement (GBM). Consideravo la conservazione dell’ambiente ed il dare potere alla gente comune come un tipo di vocazione religiosa? C’erano lezioni spirituali da apprendere ed applicare agli sforzi ambientalisti o alla vita in generale?

Quando iniziai questo lavoro nel 1977 non ero motivata dalla mia fede o dalla religione in generale. Stavo invece letteralmente e praticamente pensando a come risolvere problemi concreti. Volevo aiutare le popolazioni rurali, in special modo le donne, a soddisfare le necessità di base che mi descrivevano durante i miei seminari e laboratori. Mi dicevano che  avevano bisogno di acqua pulita, potabile; di cibo nutriente in quantità adeguata; di reddito; di energia per cucinare e riscaldare.

Perciò quando mi facevano le domande sulla spiritualità, all’inizio, io rispondevo che non pensavo allo scavare buchi ed al mobilitare le comunità affinché difendessero o curassero gli alberi, le foreste, le fonti d’acqua e il suolo, l’habitat delle specie selvatiche, come a lavoro spirituale. Inoltre, non ho mai differenziato le attività “spirituali” e quelle “laiche”. Dopo qualche anno, sono arrivata a riconoscere che i nostri sforzi non erano limitati al piantare alberi, ma che stavamo anche piantando semi di un tipo diverso, quelli necessari per dare alle comunità la fiducia in se stesse e la conoscenza necessarie a riscoprire la loro vera voce ed a rivendicare i loro diritti (umani, ambientali, civili e politici). Il nostro scopo divenne espandere quello che chiamiamo “spazio democratico”, uno spazio in cui cittadini comuni possono prendere decisioni per se stessi a beneficio proprio, della propria comunità, del proprio paese e dell’ambiente che li sostiene.

In tale contesto, cominciai ad apprezzare il fatto che ci fosse qualcosa che ispirava e spalleggiava il GBM e coloro che partecipavano alle sue attività. Molte persone provenienti da gruppi e regioni differenti ci contattarono perché volevano condividere il nostro approccio con altri. Capii che il lavoro del GBM era guidato da alcuni valori intangibili. Essi erano: amore per l’ambiente, gratitudine e rispetto per le risorse della Terra, capacità di darsi potere e di migliorare se stessi, spirito di servizio e volontariato. Insieme, questi valori incapsulavano l’aspetto intangibile, sottile, non materialistico del GBM come organizzazione. Ci permettevano di continuare a lavorare anche quando i tempi si facevano difficili.

Naturalmente, so bene che tali valori non sono appannaggio del Green Belt Movement. Essi sono universali. Non possono essere toccati o visti. Non possiamo dar loro un valore monetario: in effetti, sono impagabili. Questi valori non sono contenuti in specifiche tradizioni religiose, ne’ uno deve far professione di fede per essere guidato da essi. Sembrano piuttosto essere parte della nostra natura umana, ed io sono convinta che siamo persone migliori perché li abbiamo, e che l’umanità è migliore avendoli piuttosto che non avendoli. Dove questi valori sono ignorati, li rimpiazzano dei vizi come l’egoismo, la corruzione, l’avidità e lo sfruttamento.

Nel processo in cui aiutiamo la Terra a guarire, aiutiamo noi stessi.

Per quel che posso dire attraverso le mie esperienze e le mie osservazioni, credo che la distruzione fisica della Terra si estenda anche a noi. Se viviamo in un ambiente ferito, dove l’acqua è inquinata, il cibo è contaminato da metalli pesanti e residui plastici, e il suolo è praticamente immondizia, ciò ci affligge, influisce sulla nostra salute e crea ferite a livello fisico, psicologico ed individuale. Degradando l’ambiente degradiamo sempre noi stessi.

Wangari Maathai

Acqua, donne e salute: il trio prezioso

“Life’s Precious Trio: Women, Water and Health”, di Elayne Clift per Ontheissuesmagazine, http://www.ontheissuesmagazine.com/ – Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo




La sua giornata comincia prima dell’alba. Cammina per oltre quattro miglia su sentieri dissestati per raggiungere un buco scavato a mano, dal quale raccoglie il fabbisogno d’acqua giornaliero per la sua famiglia. L’acqua è inquinata da moscerini, feci e animali. Nella stagione secca il percorso è periglioso, perché le pareti scoscese di fango collassano e feriscono le donne e le bambine che vengono a prendere la preziosa acqua anche due volte al giorno. Quando arriva a casa, portando sulla testa un orcio che pesa quanto un cucciolo di giraffa, è esausta. La notte cammina fino alla latrina, al buio, e rischia aggressioni sessuali.

Questa è la vita quotidiana di molte donne, come lo era per la tanzanese Nakwetikya prima che un’ong con base in Gran Bretagna, Water Aid, installasse un pozzo nel suo villaggio. “La situazione era tremenda.”, dice Nakwetikya, “Non c’era acqua e scavavamo buchi per trovarne un po’. Le mie gambe cominciavano a tremare dalla paura prima ancora che mi calassi in quei buchi. Ma non c’era scelta. Se non trovavo l’acqua la mia famiglia non poteva mangiare, lavarsi e neppure bere un sorso.”

La mancanza di acqua e di impianti sanitari ha un impatto enorme sulle vite di milioni di donne nel mondo. In un solo giorno, più di 200 milioni di ore sono spese collettivamente dalle donne nel raccogliere acqua per uso domestico. E più di 600 milioni di donne vivono senza acqua sicuramente potabile e senza le necessità igieniche di base. L’accesso all’acqua influisce sulla salute delle donne in svariati modi. Soffrono dolori alla schiena, spine dorsali ricurve e deformità pelviche date dal trasportare grossi contenitori d’acqua sulla testa. Ironicamente, sono spessissimo disidratate. Sono soggette a contrarre malaria, diarrea e parassiti. Tutte malattie che hanno a che fare con il loro ruolo di cura, e che possono essere prevenute migliorando l’accesso all’acqua ed agli impianti sanitari, e maneggiando meglio le risorse.


Per far questo, le donne devono sedere al tavolo decisionale: sono loro a sapere di cosa c’è bisogno per rendere l’acqua sicura ed accessibile. I progetti che sono stati realizzati con la piena partecipazione delle donne si sono dimostrati i più sostenibili ed i più efficaci. “Poiché sono le principali utilizzatrici dei futuri pozzi, le donne sono in grado di decidere meglio la posizione di una fonte d’acqua, ed hanno una conoscenza cruciale nel pianificare gli stadi dei lavori, perché sanno dove l’acqua è più vicina, dove è più pulita, e dove le fonti si stanno esaurendo.”, spiegano a “Water Aid”, “A loro noi indichiamo misure igieniche, come il coprire l’acqua immagazzinata e l’usare rastrelliere per tenere piatti e utensili sollevati dal terreno.”

Lo status economico e sociale delle donne è in relazione anche all’accesso all’acqua pulita, in modi che sono d’importanza vitale in una prospettiva di genere. Se le bambine non devono più andare a prendere acqua possono andare a scuola, e se la scuola ha toilette decenti le ragazzine mestruate possono restarci. Le donne che hanno famiglie non oppresse da malattie correlate all’acqua possono lavorare al mercato e nei campi, migliorando il reddito familiare. Inoltre, possono assumere maggiori responsabilità all’interno della comunità, come Nakwetikya stessa testimonia: “Da quando abbiamo questa nuova fonte d’acqua la vita è cambiata in modo straordinario. Il mio status come donna ha avuto finalmente un riconoscimento (perché fa parte del “comitato acqua”, nda). Prima, gli uomini ci consideravano alla stregua di pipistrelli che svolazzano in giro. Nessuno ci permetteva di parlare o ascoltava quel che dicevamo. Adesso, quando mi alzo per parlare non sono un animale. Sono qualcuno che ha un’opinione valida.”

Le Nazioni Unite stimano che, entro il 2025, 48 paesi per una popolazione di 2 miliardi e 800.000 persone soffriranno per scarsità di acqua potabile. In questo momento, meno dell’1% dell’acqua corrente e potabile è accessibile all’uso umano diretto. La tendenza alla privatizzazione dell’acqua è pure preoccupante, perché ne innalza i prezzi e ne peggiora la distribuzione. Le donne restano nel quadro il segmento più vulnerabile, sia perché spesso lavorano in settori informali e non hanno le risorse per comprare acqua in mercati competitivi, sia perché appunto la privatizzazione rende l’acqua accessibile ancora più scarsa. Inoltre, sino a che i paesi industrializzati continuano ad inquinare fiumi ed altre fonti d’acqua con pesticidi e rifiuti tossici, le persone più povere del mondo – le donne – soffrono le conseguenze delle loro azioni mentre tentano di aver cura delle proprie famiglie. E’ per questo che ascoltare le loro voci, a tutti i livelli di governance, è così importante.

Determinazione e dignità



CAMFED – Campaign for Female Education è un’ong internazionale fondata da Ann Cotton nel 1991, con lo scopo di promuovere l’istruzione femminile in Africa. Nell’Africa sub-sahariana 24 milioni di bambine non possono permettersi di andare a scuola. Una ragazzina può essere moglie a 13 anni ed avere una probabilità su 20 di morire partorendo. Uno su sei dei suoi eventuali figli morirà prima di aver compiuto 5 anni.


Ma se una ragazza va a scuola guadagnerà il 25% in più con il suo lavoro e ne reinvestirà il 90% nella sua famiglia; avrà tre volte meno probabilità di diventare sieropositiva: avrà un minor numero di figli che saranno più sani ed avranno il 40% di probabilità in più di passare i cinque anni d’età.


Grazie al sostegno di Camfed, 602.405 bambine (e bambini) sono andate a scuola e 20.216 giovani donne hanno dato inizio a imprese economiche proprie. Le ex beneficiarie hanno anche fondato un’associazione interafricana affiliata, Cama, che ha di par suo mandato a scuola altre 161.300 bambine. Quella che segue è la storia di una di loro, Abigail Kaindu, raccontata dalla giornalista Brina Manenga per “The Post”, Zambia, il 13.9.2011. 
Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo


Mentre cresceva  nel villaggio di Chitembo, provincia di Luapula, la vita sembrava senza speranza ad Abigail Kaindu e l’avere un’istruzione un sogno lontano che non sarebbe mai diventato realtà. Ma grazie alla sua determinazione, Abigail ha pian piano realizzato quel sogno: in ottobre otterrà il suo diploma in economia, e nel suo villaggio questa 23enne è diventata un modello per molte giovani e giovanissime. Nella zona rurale in cui vive, Abigail ha sperimentato la povertà e il rigetto. Aveva 7 chilometri da fare ogni giorno a piedi per arrivare a scuola, ma ogni ostacolo sulla sua strada non faceva che rafforzarla nel suo convincimento che l’avere un’istruzione coincideva con la sua liberazione.

“La mamma morì quando io ero in terza elementare, e non ho mai incontrato mio padre. Mia nonna, che mi ha allevata, non poteva pagare le tasse scolastiche.”, ricorda Abigail. Nonostante tutto, la ragazza riuscì ad ottenere il diploma delle medie, ma la disponibilità economica della famiglia non poteva andare oltre.
“Allora pensavo che la mia vita fosse finita e tutto ciò che desideravo perduto. Avevo implorato il preside di lasciarmi presenziare alle lezioni anche dopo essere stata cacciata via perché non potevo pagarle: lui acconsentì ed anche se era difficile non ne mancavo mai una, è così che mi sono diplomata alle medie.”

Quando le ragazzine al villaggio lasciano la scuola, il passo successivo è quasi sempre il matrimonio, ma Abigail non voleva prendere quella via: “Camminavo con le lacrime agli occhi ogni giorno. La gente del villaggio diceva che perdevo tempo a crucciarmi per la scuola, e che sposarmi era la scelta migliore, ma sposarmi era l’ultima cosa a cui io pensavo.” Fu allora che Abigail venne a sapere del programma di “sponsorizzazione” di Camfed. “Fui la prima a registrarmi durante l’anno scolastico. Poi passò un po’ di tempo e avevo smesso persino di pensarci, ma durante le vacanze mi giunse la comunicazione che ero stata scelta. Ho pianto e pianto, non potevo crederci.”

Abigail è stata sostenuta sino al livello universitario ed è determinata a sollevare la sua famiglia dalla miseria: “Mi rende orgogliosa essere quella su cui si può contare. Moltissime ragazze al villaggio vogliono seguire il mio esempio, ora. Io sono la testimonianza vivente di ciò che l’istruzione può fare.”

La sua gratitudine va ovviamente a Camfed, ma c’è una persona che l’ha sostenuta in maniera particolare: “Sono molto riconoscente a mia nonna, che ha sacrificato il suo matrimonio per aver cura di me e di altri due orfani che ha allevato. Il nonno non voleva che vivessimo con lui, era solito dire che gli consumavamo il cibo. La nonna lo ha lasciato perché non voleva permettergli di cacciarci di casa.”

Il suo messaggio alle ragazze è questo: “Siate sempre concentrate e decise. La gente continuerà a dirvi che non potete farcela, ma invece potete eccome. Aprite il cuore alle opportunità e afferratele con dignità.

Io ti amerò comunque

Tratto da “Open Letter to My Unborn Daughter (or Son)”, di Staceyann Chin, scrittrice, poeta, attivista, 23.8.2011 – The Huffington Post. Trad. Maria G. Di Rienzo




Cara Figlia (o caro Figlio),

alcune persone sono preoccupate. (…) Pensano che sapere troppo sul tuo padre biologico, o saperne troppo poco, o avere una madre apertamente omosessuale, o due, ti causerà dolore non necessario. Ho preso in considerazione i loro input ed ho deciso di scriverti una lettera aperta su tutto questo.

Comincio con il riconoscere che ci saranno difficoltà nella tua vita: ognuno ne ha. E il mondo in cui viviamo è crudele, ingiusto e zeppo di diseguaglianze che tu finirai per conoscere sin troppo bene perché (ma non solo) sarai nera, figlia di un’immigrata lesbica rompiscatole, casinista e dissidente. La tua vita non comincerà in una condizione economica di benessere. E il modo in cui sei stata concepita ha dato inizio ad accese discussioni in cui i perfetti sconosciuti come gli amici hanno mostrato quanto sia complicato essere umani ed essere vivi nell’era dell’informazione.

Sono passati tre mesi da quando ho visto quella sbiadita seconda linea sul test di gravidanza fatto in casa. Non so bene cosa mi aspettassi, ma certamente non una corsa in salita contro il mio stesso corpo. Non voglio contrattare su questo. Sapevo bene che avresti cambiato la mia vita. Solo, non sapevo in che misura, ne’ quanto mi sarei sentita sola a percorrere questa strada senza una partner.

Non fraintendermi. Non ho alcun rimpianto. Lo rifarei immediatamente se questo significa che poi esploreremo questa vita in continua evoluzione insieme. Sto già meglio per l’aver deciso di cominciare il viaggio che mi porterà ad avere una famiglia. La speranza è tornata nel mio cuore. Sono in grado di veder miracoli nella vita quotidiana, di scoprire la celebrazione della più piccola delle vittorie. Ed ogni giorno in cui mi sveglio respirando, e tu fluttui dentro di me, sono grata e cerco modi di dimostrarlo.

Temo però di non star maneggiando gli aspetti fisici della gravidanza molto bene. Tutto in me sembra incerto, fluente: la mia pelle, il mio stomaco, i miei seni, le mie papille gustative, le mie viscere, le mie emozioni, la mia capacità di mangiare quello che desidero: ogni aspetto di me è diventato un imprevedibile allarme, qualcosa che minaccia ogni volta di andar storto. L’unica cosa che mi mantiene sana di mente e in grado di sopravvivere a qualsiasi disastro è la volontà di diventare tua madre. (…) Ma ti devo dire che quelle immagini di donne incinte che ho visto sui magazine e sui siti web sono decisamente fuorvianti. Io non ho avuto un singolo momento che assomigli alla calma totale di cui sono infuse. Da mesi, ormai, rigetto un pasto su due. Non riesco a dormire più di due ore consecutive, perché devo alzarmi a fare la pipì 4 volte per notte.
Nulla di piccante è passato attraverso le mie labbra giamaicane da dio sa quando. Posso passare dal sentirmi sazia al sentirmi affamata in tre minuti – e se non mangio immediatamente i conati di vomito che seguono mi lasciano a stento in grado di respirare distesa sul pavimento del bagno. I miei movimenti intestinali assomigliano un po’ all’economia mondiale: sforzi volonterosi largamente inutili.

Sto anche avendo i più creativi degli incubi. (…) Ho sognato di mettere al mondo un cucciolo, un pappagallo, un libro di poesie ed un bambino con la faccia (e le politiche) di George W. Bush. Alcune notti ho persino paura di addormentarmi, di sognare un qualche nuovo orrore da cui non riuscirò a svegliarmi. Sopporto tutto questo senza che ci sia nessuno a carezzarmi la schiena e i capelli, ad abbracciarmi gentilmente ricordandomi che gli incubi non sono reali. Perciò ogni volta in cui vedo la fotografia di qualche donna incinta con le mani posate soavemente sul ventre gonfio, che esibisce quel sorriso beato, sento l’urgenza di lottare con lei rotolando a terra, e di chiederle perché sta perpetuando la bugia che la gravidanza sia un processo privo di stress, in cui le donne diventano l’immagine della gioia perfetta. (…)

Inoltre, sono ossessionata dalle tue piccole mani, piedi e orecchie che si sono già formate dentro di me. Mi chiedo se tutto è come dovrebbe essere. E mi domando se sono già una cattiva madre a concentrarmi sulle dita, le ciglia o i reni che potresti avere o non avere. Inutile dirlo, in questo momento sono un completo disastro. Mi arrovello su qualsiasi cosa. Voglio che tu arrivi con tutte le tue parti al posto giusto. Voglio tu sappia che – nonostante quel che la gente dice del tuo concepimento tramite fecondazione assistita – io ti amo già, e mi preoccupo per te, e voglio il meglio per te. Voglio tu sappia che ho fatto una pletora di errori in vita mia, che ho urtato amanti, cugini e amici ed estranei. Non sono perfetta, e desidero scusarmi per tutti gli errori che ho già fatto con te, in special modo per quelli di cui non sono neppure consapevole.

E vorrei fare un patto con te: che tu ed io si sia d’accordo sull’essere comprensive, leali ed oneste, e piene di compassione l’una per l’altra, e per le persone che non sono proprio come noi vorremmo che fossero. Mi piacerebbe se tu ti unissi a noi nel contrastare gli ignoranti pieni di odio che vogliono togliere alle donne i diritti riproduttivi, o che etichettano e valutano le persone basandosi sul colore della loro pelle, o su che compagni scelgono, o sulla parte di mondo da cui provengono. Crescendo, ti accorgerai che persone spaventose e potenti hanno ridotto ad una parodia il nostro bellissimo pianeta, e che le ideologie socio-politiche che controllano i nostri modi di vivere sono di mente ristretta e condite di bigottismo.

Sarebbe una dolce vendetta crescere una figlia o un figlio che durante la sua vita tenterà di disfare tutto questo. Ma ti prometto che anche se sceglierai di non farlo, io ti amerò comunque. Ce la metterò tutta nel sostenerti mentre ti farai strada nel mondo; tenterò di sorridere prendendo un morso dal tuo sandwich mezzo mangiato e pieno di saliva; ti festeggerò in ogni caso, che tu sia no al primo posto; sarò presente nei momenti importanti della tua vita e ti lascerò sempre spazio per esplorare ciò che vuoi essere.

Creatura mia, queste promesse sono solo ciò che io intendo fare. Ti garantisco il permesso, quando verrò meno a queste grandiose intenzioni, di sventolarmi davanti questa lettera e di ricordarmi cos’ho scritto molto tempo prima che tu nascessi. Con amore, e nella speranza che tu arrivi sana e salva, tua madre Staceyann Chin.

Artiste di strada

Tratto da un articolo di Elayne Clift per Women’s Media Center, 26.7.2011. Traduzione di Maria G. Di Rienzo


I graffiti esistono da quando gli esseri umani cominciarono a dipingere le pareti delle caverne. Oggi condannati come vandalismo da alcuni, o scherniti come pratica infantile da altri, sono definiti dalla studiosa canadese Jane Gadsby come “una forma di comunicazione personale priva delle costrizioni sociali consuete”.

Fra i graffitisti in evidenza in tutto il mondo ci sono donne come l’olandese Mickey e Lady Pink, nata in Ecuador e cresciuta a New York. Costoro (assieme ad altre due artiste newyorchesi, Swoon e Claw) sono riconosciute a livello internazionale come le fondatrici di una sorellanza all’interno del movimento artistico dei writers, documentata anche dal libro del 2006 “Graffiti Women: Street Art from Five Continents” – “Donne graffitiste: arte di strada dai cinque continenti” di Nicholas Ganz. Nella prefazione, Nancy Macdonald scrive che un artista di strada maschio occupa “una sfera che gli garantisce una presenza e l’opportunità di essere riconosciuto. Questa sfera è molto più dura da occupare, per le donne.”

Forse è per questo che l’esplorazione di genere dei graffiti ha spesso condotto i ricercatori nei bagni pubblici, dove le donne si devono essere sentite più sicure e libere di scrivere e disegnare. I ricercatori hanno anche notato che i graffiti “da bagno” femminili sono più interattivi ed interpersonali di quelli maschili, osservando che mentre gli uomini tendono a scrivere delle loro prodezze sessuali, le donne maneggiano relazioni.

“Inizialmente lo scrivere graffiti era un gesto di attivismo, un segno di ribellione.”, dice Lady Pink, i cui lavori sono oggi esposti nei musei, “I graffiti mi hanno dato forza ed hanno costruito il mio carattere. Quando ho iniziato ero timida e schiva, ma ho scoperto di avere una voce, di avere qualcosa da dire.” Solo più tardi si accorse che stava creando arte femminista, denunciando ingiustizie e mostrando le donne come eroine e modelli positivi invece che come vittime.

L’artista olandese Mickey dice che i graffiti sono diventati “arte folk”. Definisce i suoi primi graffiti come “un modo ribelle di esprimere me stessa artisticamente, ed una forma di comunicazione con l’esterno. I graffiti hanno contribuito alla mia vita in tal modo da farmi diventare un libero essere umano con uno spirito libero. Mi hanno insegnato molte lezioni di vita e mi hanno aiutata nei momenti difficili.”

All’inizio, essere un’artista di strada di sesso femminile significava rischiare di essere ridicolizzate e aggredite violentemente sia dai graffitisti maschi sia dalla polizia. Lady Pink ricorda che “andare in giro per la metropolitana essendo donne era davvero pericoloso. Mi travestivo da ragazzo e tentavo di non farmi notare. La polizia minacciava e molestava le graffitiste. E c’era sessismo da parte dei ragazzi che non volevano credere che io stessi semplicemente facendo il mio lavoro. Ho dovuto dipingere in mezzo a diversi gruppi di writers per dar prova di me stessa. Come tutte le donne, ho dovuto faticare il doppio per avere un trattamento eguale.”

Lady Pink attualmente lavora con le scuole, dove insegna ed ispira i giovani artisti. Del suo lavoro con i bambini e i ragazzi dice: “E’ importante che i giovani artisti mettano in discussione lo status quo e pensino in modo non convenzionale. Dove sta scritto che l’arte appartiene alle gallerie e dev’essere vista in silenzio? Perché non sulle strade, dove chiunque può vederla?”

Mickey, che esegue murali su commissione, dice: “Mi piace creare cose che rendano felici chi le guarda. Per me, i pezzi colorati dei graffiti non sono mai vandalismo. Vandalismo è distruggere qualcosa di proposito solo perché hai l’impulso di farlo. I graffiti sono diversi. Dipingi la città affinché appaia migliore. Penso che i graffiti siano ormai diventati arte popolare.”

Poesia contro il golpe

Honduras: “Neither Striking Down The State, Nor Striking Down Women”, di Gabriela De Cicco per AWID, 31 luglio 2011. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. www.awid.org

Honduras, nell’America Centrale, ha una popolazione che conta un po’ più di otto milioni di persone. Nel 2009, una contesa politica sui piani per riscrivere la Costituzione honduregna risultò nell’allontanamento del Presidente Manuel Zelaya, tramite colpo di stato da parte delle forze dominanti del paese: capi militari, politici conservatori dei partiti Liberale e Nazionale, proprietari dei media principali, proprietari terrieri e uomini d’affari dell’oligarchica alta classe.  Roberto Micheletti Bain fu insediato come Presidente ad interim e, nel novembre dello stesso anno, si tennero elezioni nazionali. Il 27 gennaio 2010 il neo eletto Presidente Porfirio Lobo Sosa prese il suo posto. Ma ciò non ha messo fine alla crisi che attraversa il paese e la violenza e la repressione continuano.

AWID ha parlato con Jessica Sánchez, un’attivista di “Feminists in Resistance” (FeR) del movimento di resistenza delle donne e dello stato attuale dei diritti umani delle donne in Honduras.

AWID: Cos’è il Movimento di resistenza popolare (MRP)?

Jessica Sánchez (JS): E’ il movimento sociale che si è creato a seguito del colpo di stato, ed è composto da donne, lavoratori, organizzazioni rurali ed indigene, associazioni commerciali e sindacati, ed il movimento LGBTI (lesbico, gay, bisessuale,
transgender e intersessuale). E’ venuto alla luce per rendere visibili le richieste di persone che per vent’anni hanno sopportato colpi di stato militari, violenza, povertà ed esclusione grazie alle classi d’élite del paese. Gli ufficiali dell’esercito ed i leader responsabili del colpo di stato hanno sottostimato la reazione popolare. Non si erano aspettati che la gente sarebbe scesa in strada per “resistere” tramite manifestazioni pacifiche, un giorno dopo l’altro, in città diverse in tutto il paese.

AWID: La repressione è aumentata a causa della continua resistenza? Quali gruppi sono stati bersagli per la repressione?

JS: Sì, di fronte alla disobbedienza civile, le autorità “de facto” hanno emanato un decreto che permette l’uso della forza alla polizia e all’esercito e ciò è cresciuto sempre di più mano a mano che sempre più persone si univano alla resistenza. I metodi nell’uso della forza si sono pure intensificati negli ultimi mesi, e includono arresti, diverse forme di tortura (pestaggi, ossa spezzate di proposito), stupri, minacce e molestie, il tutto diretto contro i leader del movimento sociale, in particolar modo giovani e donne.

Gli insegnanti, ad esempio, stavano protestando perché il loro Statuto è stato rigettato e non implementato, e quando sono scesi in strada con i loro sindacati sono stati violentemente repressi con gas tossici e arresti. Il governo ha inoltre sospeso più di 300 insegnanti, come misura punita, e costoro stanno ancora lottando per essere reintegrati nel posto di lavoro.

Il movimento contadino di Aguán, nel nord del paese, è un altro gruppo che subisce ancora violenza. Trenta omicidi di attivisti che lottavano per difendere le terre loro confiscate sono stati documentati negli ultimi 15 mesi. La popolazione dell’isola  Zacate Grande si trova in circostanze simili, è minacciata di evacuazione, violenza e persino morte perché sta difendendo il proprio territorio.

Anche il personale dei media ha dovuto portare il peso della violenza: 12 giornalisti sono stati assassinati durante il periodo dell’amministrazione Porfirio Lobo. Sino ad ora lo stato non ha riconosciuto le violazioni dei diritti umani che sono occorse sin
dall’inizio del colpo di stato, il 28 giugno 2009. E’ perciò che i movimenti sociali del paese, incluso il movimento femminista, si stanno opponendo con forza alla reintroduzione di Honduras nell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS) ed hanno protestato in occasione del recente incontro in Salvador.

AWID: E’ vero che la violenza contro le donne è aumentata di pari passo con la repressione?

JS: Più di 400 atti di violenza di genere sono stati documentati, fra il 2009 ed il 2010, dal “Comitato delle famiglie degli arrestati-scomparsi” e dalla coalizione “Feminists in
resistance”. Il rapporto, sottoposto alla Commissione Inter-Americana per i Diritti Umani, descrive questi atti: torture, pestaggi, abusi sessuali, arresti, minacce di stupro e molestie, diretti a membri e leader donne del Movimento di resistenza popolare.
La repressione nei barrios (quartieri ove vivono vivono proletari e classe media), attuata tramite i raid polizieschi, ha costretto le donne a fuggire dalle proprie case per
proteggere se stesse e le proprie famiglie.

AWID: In che modo sono stati toccati i diritti delle donne dopo il colpo di stato?

JS: Le istituzioni create per lo sviluppo e l’amministrazione della giustizia, dirette alle donne, sono state indebolite. Ciò è allarmante, perché in questo clima di impunità i femminicidi  sono aumentati di più del 60%, secondo i dati ufficiali: siamo passati da 252 omicidi di donne nel 2008 ai 407 del 2009. Nel 2010 il trend è continuato, e ai primi di marzo del 2011 già 55 omicidi classificabili come femminicidi  sono stati denunciati. Dal punto di vista delle politiche pubbliche c’è stato un sensibile passo indietro quando è scattata la proibizione per la vendita e l’uso della contraccezione d’emergenza. Il processo consultivo che doveva portare al secondo Piano per l’eguaglianza e l’equità di genere è stato fermato.

AWID: Perché, e in che modi, le femministe ed altri movimenti sociali stanno resistendo al governo “de facto”?

JS: Come femministe, continuiamo a resistere perché crediamo nella democrazia genuina che comprende l’equità, e nel riconoscimento dei nostri diritti quali esseri umani e costruttrici di cittadinanza, e dobbiamo lottare per questo. Stiamo costruendo un movimento sociale anti-patriarcale che opera al di fuori della logica militare e neoliberista; un movimento per il dialogo e per il cambiamento, in cui le donne hanno rappresentanza.

Oltre a Fer, ci sono femministe nei diversi movimenti sociali (rurale, indigeno, sindacale) e tutte noi vogliamo ricostruire e ricreare un nuovo Honduras. Almeno, questi sono i nostri sogni e le nostre aspirazioni. Ad esempio, resistiamo attraverso l’arte: “Contra el Golpe, contra todos los golpes, poesía” (Contro il golpe, contro tutti i golpe, poesia) è un’attività che hanno iniziato Francesca Gargallo e Karina Ochoa. Cariche di libri, cominciarono ad andare a leggere per gruppi di lavoratrici delle maquilas (fabbriche tessili) e per le contadine nel 2009, quando la repressione era ferocissima. Attività simili sono state organizzate a El Salvador con poetesse honduregne e salvadoregne, all’interno della protesta contro il reinsediamento di Honduras nell’OAS.

Stiamo esponendo pubblicamente la non volontà dello stato di occuparsi delle flagranti violazioni dei diritti umani e dei diritti delle donne. Non siamo d’accordo con quanto Porfirio Lobo ha dichiarato di recente, e cioè che “Dobbiamo perdonarci e ricominciare da zero”, perché la vittima ed il perpetratore, il torturatore e la donna che è stata torturata non possono essere equiparati. Chiediamo che la polizia e l’esercito, così come coloro che sono responsabili dell’esecuzione del colpo di stato, ammettano le violazioni dei diritti umani e le loro responsabilità.

AWID: Che tipo di conseguenze ha questa resistenza?

JS: Si sono manifestate, a livello personale e politico, per tutte le donne che fanno parte del movimento di resistenza: da una parte c’è la violenza di cui molte di noi hanno fatto esperienza, assieme a parenti, amici e figli; dall’altra c’è la persecuzione politica che molte compagne subiscono. Attiviste femministe sono sotto sorveglianza da parte delle polizia ed alcune hanno dovuto lasciare il paese per le minacce alla loro integrità fisica ed alla loro vita, e sono ancora in esilio.

Abbiamo lavorato incessantemente, e stiamo vivendo in una sorta di “modulo d’emergenza”, denunciando, inviando informazioni ai media, provvedendo sostegno ovunque con tale intensità che siamo davvero esauste. Salute emotiva e fisica ne risentono. Avremmo bisogno di spazi di guarigione, ma ciò non può accadere mentre siamo alle prese con situazioni d’emergenza per i diritti umani.

Gli aiuti internazionali sono stati limitati, per le femministe e per i movimenti e le organizzazioni di donne, dal colpo di stato in poi. E’ difficile conciliare la nostra agenda, che include la demilitarizzazione e la costruzione di democrazia, con quelle della cooperazione internazionale. Come possono lo stato e la società civile lavorare insieme senza riconoscere le violazioni che si sono date dopo il golpe? Stiamo ricreando il nostro movimento da un modello di resistenza che include le richieste femministe. Il nostro motto è: “Se le donne non ci sono, la Costituzione non va da nessuna parte”.

Dal lato positivo, la resistenza ha condotto ad approcci pro-attivi all’interno dei nostri stessi movimenti, come l’emergere di numerose organizzazioni femministe e  singole femministe che hanno trovato convergenza nella Fer, o il Forum delle Donne per la vita nel nord paese. Sono emersi anche movimenti specifici di giovani femministe.

Non è stato un processo facile, ma apprezziamo la solidarietà internazionale e regionale da parte delle compañeras che condividono la nostra lotta da differenti angoli della Terra. Abbiamo sentito di non essere sole nel nostro sogno, di essere parte di una lotta globale, un grande sogno collettivo che ci permette di crescere e continuare.

Recensioni di "Voci dalla Rete. Come le donne stanno cambiando il mondo"

VOCI DALLA RETE. COME LE DONNE STANNO CAMBIANDO IL MONDO
Un libro di Maria G. Di Rienzo (a cura di) Forum, 2011,15 euro

«Perché siamo così pronte ad adottare una pigra posizione di relativismo culturale? Il femminismo ha fallito? Forse non per voi, e non per me. Ma sapete una cosa? Non riguarda solo noi». Questa la conclusione dell’intervento di Virginia Haussegger a un dibattito del settembre 2010 dal titolo «Feminism has failed» e riportato da Maria Di  Rienzo in Voci dalla rete, una raccolta di testimonianze pubblicate su «Lunanuvola’s Blog» cinquantanove per la precisione, da lei raccolte, tradotte, adattate. Echi femminili che arrivano a noi da tutto il pianeta, dall’Afghanistan allo Zambia, dall’Iran agli Stati uniti, e che restituiscono un affresco mondiale delle discriminazioni e dei crimini contro le donne. Ma anziché essere una sequela di lamentazioni, il libro è piuttosto un inno corale alla vita e un’iniezione di ottimismo. «So che vinceremo» è il titolo dell’ultimo intervento, e vittoria, coraggio, libertà e dignità sono le parole ricorrenti di queste donne che raccontano e, con la narrazione delle proprie vite, cambiano la Storia. Esperienze personali uniche ma simili, che sollecitano la necessità e improcrastinabilità di una trasformazione radicale delle relazioni di potere tra i generi. Ma allo stesso tempo le storie di vita di queste protagoniste ci dicono che la realtà sta già cambiando e che dobbiamo fare spazio, nelle nostre teste, a questa trasformazione in atto. «Non c’è settore dell’umana esistenza in cui le donne non abbiano lavorato e non stiano lavorando affinchè le priorità siano pace, giustizia, uguaglianza e libertà. Per tutti.», dice la curatrice del volume. E proprio perché è dall’esperienza che nasce il sapere, le donne sono pronte a «cambiare il mondo».

Nadia Angelucci per “Le Monde Diplomatique” – Inserto de Il Manifesto


Se nominiamo Fiji, Vanuatu o le Isole Salomone, pensiamo alle vacanze, probabilmente immaginiamo donne sorridenti e serene. La realtà è un’altra: il 60 per cento delle nazioni del Pacifico non ha leggi contro la violenza domestica, perché “sarebbero contrarie ai costumi tradizionali”, come hanno affermato i capi (uomini) di Vanuatu. E il 73 per cento delle loro mogli pensa che sia diritto dei mariti picchiarle.

Il libro “Voci dalla rete” racconta di un universo femminile ignorato dalle riviste di viaggio e di norma invisibile ai viaggiatori stessi, lo racconta in presa diretta attraverso le testimonianze di donne raccolte sul web da Maria G. Di Rienzo e provenienti dall’intero continente, da paesi lacerati da guerre e da violenze come Afghanistan, Iran e Palestina e da quelli che sono destinazioni turistiche come Namibia, Kenya, Indonesia, Guatemala, Cina, Russia, India.

Sono testimonianze di vite, di sfide, di battaglie e di resistenze di migliaia di donne. Alcune voci sono positive e piene di speranza, altre drammatiche e sofferte, ma tutte coraggiose, tutte di donne stanche di sopportare e con la voglia di cambiare il loro mondo e il mondo intero.

Sono le voci delle contadine colombiane che piantano alberi nel deserto, delle messicane e guatemalteche che denunciano continui femminicidi, delle danzatrici dello Zambia che raccolgono i bisogni della loro gente dando vita a progetti di istruzione, delle madri di Tienanmen che chiedono giustizia. Sono le voci di donne confinate in cucina e nella cura della prole, donne a cui non è consentito lavorare fuori casa o guidare un’auto, donne private dei loro beni, spose e madri adolescenti vittime di matrimoni forzati con uomini anziani, donne analfabete, abusate, vendute, costrette alla prostituzione, vittime di “delitti d’onore”, bambine appena nate annegate in un secchio d’acqua sporca.

Violenze che non si possono giustificare in nome del relativismo culturale, della religione, dell’autodeterminazione o della tradizione. Chiamarle cultura è un’offesa alle vittime e alla nostra intelligenza. Sono tutti frammenti di un universo femminile drammaticamente simile, perché simile è il potere esercitato sul corpo, la sessualità, i pensieri, la libertà e la vita stessa delle donne da una diffusa cultura maschilista e misogina che le considera proprietà e non persone. Eppure queste donne sono ancora capaci di sognare e di regalare il loro sogno ad altre donne, sono capaci di rompere il silenzio per riprendere in mano le loro vite, pagando il prezzo del loro coraggio.

Pagina dopo pagina si prende dolorosa coscienza che nel mondo c’è una guerra silenziosa, trasversale e non dichiarata, una guerra contro le donne che si manifesta in forme diverse, talvolta subdole, altre volte evidenti, ma con un comun denominatore: la marginalità e la sottomissione di metà della razza umana.

Non possiamo far finta di niente, perché anche noi donne occidentali, in famiglia e sul lavoro, nel privato come nel sociale, siamo parte di quella rete tinta di rosa che avvolge il mondo e che tesse quotidianamente con energia e dignità, coraggio e perseveranza, la trama e l’ordito di un futuro diverso e migliore per tutti. Uomini compresi.

Anna Maspero per Il Reporter – http://www.ilreporter.com

Lettera alle mie figlie

Il giorno in cui Fawzia Koofi nacque, sua madre la espose al sole bruciante dell’Afghanistan affinché morisse. Era la diciannovesima nascita in una famiglia con sette mogli (il totale dei figli sarebbe poi ammontato a 23) e sua madre non voleva un’altra femmina.
Nonostante le terribili ustioni, le cui cicatrici l’avrebbero accompagnata sino all’adolescenza, Fawzia sopravvisse e divenne per sua madre la figlia prediletta. Quando il padre, un uomo politico tradizionalista, fu assassinato dai mujahedin, la madre analfabeta di Fawzia decise di mandare la figlia ormai decenne a scuola; mentre la guerra civile infuriava, Fawzia schivava pallottole vaganti e cecchini e presenziava inflessibilmente alle lezioni, conscia di essere la prima persona della sua famiglia che stava ricevendo un’istruzione.

Successivamente sposò l’uomo che amava ed ebbe due figlie desiderate, Shohra e Shaharzad. L’ascesa al potere dei talebani mise fine alla sua libertà, ma non alla sua volontà di contrastare l’ingiustizia e di realizzare i suoi sogni. Così Fawzia divenne un’attivista e una donna politica. Ha lavorato per l’Unicef e per svariate ogn come difensora dei diritti umani di donne e bambini. E’ attualmente membro del parlamento afgano e correrà per la presidenza del paese nel 2014.

Tutto questo lo racconta in “Lettere alle mie figlie”, che sta scrivendo assieme a Nadene Ghouri, giornalista che ha lavorato per la BBC e Al Jazeera: “Il mio libro è in realtà una lettera al mondo. Alcuni lettori potranno trovare la mia storia triste o deprimente, o forse troppo personale perché solleva questioni relative alla mia famiglia ed alla mia vita. In più, potrebbero esserci persone a cui non piacerà la natura rivelatrice di quanto ho da raccontare sulle donne e sulla mia comunità: alcuni diranno che mi lamento o che tradisco. Ma è un rischio che mi sento di assumere a beneficio del mio bellissimo paese, il nostro Afghanistan. Quando una donna obietta rispetto alla vita che conduce è considerata una disgrazia per la sua famiglia, ma io l’ho fatto ugualmente. Ho appuntato il mio cuore alla mia manica, rivelando in onestà e integralmente la verità del mio viaggio. Ho percorso una lunga strada irta di difficoltà, sfide e tristezze, dai miei umili inizi quale figlia femmina in una società misogina che non dà valore alle voci femminili, ad essere una voce per la vulnerabile e vittimizzata comunità delle donne afgane di oggi. La mia lotta è cominciata il giorno in cui sono nata.

“Lettere alle mie figlie” non è la storia della mia vita. E’ la storia della vita di ogni donna afgana. Ho documentato la nostra storia di vita per disegnare una chiara immagine delle nostre lotte, di modo che il mondo capisca cosa stiamo passando e cosa è effettivamente  minacciato. Questa storia è come un oceano che mi sono portata sulle spalle per decenni, per l’intera mia esistenza. Ho sentito che era il momento giusto per renderla in parole.”

Maria G. Di Rienzo

Il sito di Fawzia Koofi:  http://www.fawziakoofi.org 

Se parliamo la lingua materna

C’erano una volta le babaylan (“donne mistiche”), le specialiste della comunità filippina nei campi della cultura, della religione, della medicina e della conoscenza dei fenomeni naturali, chiamate ad istruirsi per rivestire questo ruolo onorato da un sogno, da un’esperienza traumatica o da una babaylan più anziana. Prima dell’invasione degli spagnoli nel sedicesimo secolo, queste donne erano il perno sociale e spirituale dei loro gruppi… Ma no, non vi sto raccontando una fiaba. Le babaylan, anche se in minor numero di un tempo, ci sono ancora. E il cuore del loro insegnamento, il centro di una visione olistica che non crea immagini del divino poiché “siamo tutti un unico respiro, e dio è in ciascuno di noi”, è la risoluzione nonviolenta dei conflitti.

Aperte a tutto ciò che è buono e che aiuta la vita, hanno incorporato il messaggio di pace cristiano nei loro canti di preghiera: traducendolo nei linguaggi nativi, perché “dio ci capisce se parliamo la lingua materna”. L’educazione alla pace fornita dalle babaylan comincia molto presto, diretta ai bambini. Ciascuna bimba o bimbo apprende a maneggiare il conflitto in modi appropriati a seconda che esso si dia tra i suoi pari, con le persone adulte e le babaylan stesse; violenza e guerra sono ovviamente escluse da questa visione, perché distruggono e non gettano ponti. Il concetto di base è che non potremo andare con grazia e gentilezza sul ponte che attraverseremo dopo la morte (“tumatawid”), ne’ trovare guida durante il passaggio, se non abbiamo amato e curato in questa vita, che è sacra.

E poiché tutta la vita è sacra proteggere gli animali, l’acqua, la terra, l’aria sono compiti irrinunciabili: le babaylan odierne sono ecologiste che hanno dato più di un filo da torcere a chi voleva e vuole deforestare o devastare i loro ambienti naturali. “Non può essere altrimenti.”, dicono, “Quando ci tolgono la foresta, strappano dio via da noi. Poiché tutto è interconnesso, la pace e la giustizia sono ingredienti indispensabili per la vita sulla terra.” Forse state immaginando un mucchietto di donne prive di vero potere, illetterate e confinate in remoti villaggi, ma le babaylan valutano l’istruzione quanto il bilanciamento, ed il mantenimento delle loro tradizioni non confligge con l’apprendere cose nuove. Una babaylan odierna è per esempio l’ecologista Kunthala Lahiri-Dutt, attivista di punta delle lotte ambientaliste delle comunità locali, esperta delle istanze relative all’acqua ed al mantenimento degli ecosistemi. Kunthala lavora per diverse università locali ed estere, ed è presente come specialista nel “Programma per il maneggio delle risorse naturali nell’Asia del Pacifico”.


La preparazione per diventare una babaylan è lunga, poiché abbraccia diversi campi, ed incorpora in una sola figura i ruoli di sacerdotessa, guaritrice, saggia e profetessa. I sette valori che un’aspirante babaylan deve conoscere e maneggiare, però, credo possano essere d’ispirazione anche a noi.

1) “Kalooban at patotoo”: imparare ad essere umani, a definire se stessi come umani. La manifestazione della verità e dell’integrità del sé, il piantare i semi della coscienza. Quando questo attributo spirituale è presente, le persone si muovono verso “ginhawa” (il benessere, l’essere a proprio agio), i cui significati operativi concreti si traducono nel lavorare ed apprendere assieme agli altri, amandoli della loro umanità, che noi condividiamo.

2) “Kabuhayan at kaalwanan”: imparare a fare, a nutrire l’intelligenza che in noi sostiene la vita. Il capire che il godere di salute e cose buone avviene per condivisione e inclusione e che un’esistenza umana “sostenibile” per il pianeta basa sulla reciprocità.

3) “Karunungan at kaalmang-bayan”: imparare ad imparare! Il nutrire insieme la nostra conoscenza collettiva. La vita ci insegna come si fa, sostengono le babaylan, e ripete le sue lezioni sino a che non le comprendiamo. Perciò noi impareremo dalle esperienze che facciamo con i nostri cari, nelle nostre famiglie e nelle nostre città; impareremo dalla storia, dalle radici e dai significati che erano esplicita conoscenza tanto tempo fa; impareremo dai nuovi modelli che emergono, dalle reti locali, nazionali, e globali. La dott. Maria Luisa Canieso Doronila, che ha compiuto studi antropologici sulle comunità indigene, parla di come le babaylan incoraggino in esse una sorta di “intelligenza multipla” che sviluppa alti livelli di conoscenza (linguistica-verbale, corporea, logica-matematica, intrapersonale, artistica, ecc.) anche in persone che vivono in condizioni di povertà.

4) “Kapwa at kapatiran”: imparare a vivere e lavorare insieme come un popolo compassionevole. E’ il riconoscimento delle differenze e del loro valore, il vederle all’interno del proprio gruppo. Poiché i termini dell’interazione (“kapwa”) sono non sessisti e non gerarchici, le babaylan ad esempio, in presenza di violazioni che riguardano le donne, hanno un rituale di guarigione che prevede la narrazione della loro storia e la promessa da parte della loro comunità di trasformare le pratiche patriarcali in azioni positive.

5) “Pagkakaisa at pamathalaan”: imparare a realizzare una visione ed una missione collettive. Secondo la babaylan Marianita Girlie C. Villariba si tratta di qualcosa di molto simile alla “fronesis” di Aristotele. Si tratta della capacità di interpretare la situazione politica in cui viviamo e di decidere che azioni intraprendere al proposito. “Nessuno di noi da solo è buono quanto tutti noi insieme”.

6) “Lakas at tibay ng loob”: imparare a sostenerci spiritualmente. In sostanza si tratta di coltivare una certa “forza di carattere”. A Marianita Villariba questo aspetto fu particolarmente utile durante gli anni ’70, quando resisteva come attivista all’oppressione del governo militare. “Una cosa che ho appreso è che non avevo necessità di “purificare le mie motivazioni”: una delle trappole in cui cadiamo come attivisti è spesso quella del martire, del servizio totale ad una causa, che può renderci ciechi, anche a livello spirituale. Ho riconosciuto che la verità ha molte motivazioni, molte ma non uguali, non intercambiabili, e che la rabbia verso l’ingiustizia va “organizzata”, altrimenti sarà essa a guidarci e non noi a servircene come stimolo.”

7) “Bathala na”: imparare a sviluppare il dono finale della perseveranza, della continuità. “Bathala” significa dio. “Bathala na” è la determinazione che si erge davanti all’incertezza, è il coraggio di dedicarsi alla pace ed alla giustizia. E’ il punto finale di una filosofia sistemica che vive la Terra come spazio sacro e casa di diversi popoli e gruppi, e dove chi è guida politica lo è fino a che lega i suoi atti al rispetto ed alla reciprocità.

Maria G. Di Rienzo

Lezioni d’amore e di cucina

Di Deborah Block per Voice of America, 28 giugno 2011, trad. Maria G. Di Rienzo

Per undici anni la Sierra Leone, paese dell’Africa occidentale, è stata devastata dalla guerra civile. La guerra ebbe inizio nel 1991 quando un gruppo ribelle, chiamato il Fronte rivoluzionario unito, lanciò una campagna per controllare i ricchi giacimenti di diamanti del paese. I ribelli assalivano i civili nei villaggi, usando machete ed asce per tagliar loro braccia, gambe, labbra e orecchie.

Damba Koroma aveva solo cinque anni, nel 1997, quando i ribelli le tagliarono il braccio sinistro. Più tardi, da bambina, fu portata negli Usa, dove ha appena terminato le scuole superiori. Sul braccio sinistro una mano dalle unghie perfette, sull’altro solo il ricordo. Ma Damba Koroma non indugia nel passato. Cucinare è una delle sue passioni: qualche giorno prima di ricevere il diploma se la gode nel preparare un’insalata durante la lezione di cucina. Usa allo scopo delle protesi speciali. “Trovo splendido il riuscire a produrre qualcosa di veramente buono e gustoso che altre persone ed io ameremo mangiare.”, dice.

L’insegnante Craig Scheuerman l’ha aiutata a procurarsi le protesi, che sono state donate da una fondazione non-profit. Dice che Koroma è la studente migliore che lui abbia mai avuto: “Pensavo che lei fosse disabile, ma adesso mi è chiaro che non lo è. E’ fenomenale in cucina. Riesce a lavorare alla stessa velocità di chi ha due mani.” I suoi compagni di classe sono d’accordo, e dicono che è sempre disposta ad aiutare gli altri. Daryl Hale afferma di essere impressionata da come Damba sia una “buona persona da qualunque parte la si osservi”. Josoph Jackson aggiunge che è volonterosa nel condividere le sue conoscenze con tutti.

Damba Koroma ricorda il giorno in cui i ribelli attaccarono il suo villaggio, chiedendo danaro a sua madre che non ne aveva. Il capo del gruppo disse che avrebbe fatto della bambina un esempio, di modo che tutti sapessero cosa sarebbe accaduto se non avessero soddisfatto le sue richieste. “Tagliarono via il mio braccio sinistro, e lo stesso fecero a mia madre e a molte altre persone del villaggio.” Damba spiega che ci vollero tre interi giorni, alla sua famiglia, per riuscire a raggiungere un ospedale nel mezzo del caos. Dopo di ciò, Damba ha passato tre anni viaggiando da un campo profughi all’altro. “Mia madre ed io, durante il giorno, entravano nelle città fuori dalle quali eravamo accampate, mendicando i soldi per il cibo.”

Nel 2000, mentre si trovavano in un campo per amputati, a Damba fu offerta l’opportunità di ottenere un braccio artificiale negli Usa. Ma ad operazione terminata, la bambina era terrorizzata all’idea di tornare in Sierra Leone. Quando la sua storia divenne nota al pubblico, Sahr Pombor e sua moglie Josephine si fecero avanti per diventare i suoi tutori ad Alexandria, in Virginia: “Non riuscivo neppure a pensare a quanto dolore aveva sopportato. Mi lacerava e basta.” La coppia di freschi sposi provenienti dalla Sierra Leone, fuggiti negli Stati Uniti a causa del conflitto, ha avuto successivamente tre bambine proprie. Josephine Pombor ricorda che fu sua sorella a darle consigli su come aiutare Damba: “Prendi quella mano e baciala, mi diceva, non devi dirle altro se non che la ami, e questo l’ho fatto di continuo. Mano a mano che cresceva, diventata sempre più fiduciosa in se stessa.”

Damba dice che non prova amarezza: “Anche se ho una sola mano, anche se ho un passato decisamente duro, non permetterò a questo di impedirmi di fare ciò che voglio fare.” lo scorso aprile la ragazza è tornata in Sierra Leone per la prima volta. Ha incontrato altri amputati e parlato agli studenti sul fatto che non bisogna mai darsi per vinti. Si è riunita alla madre e agli membri della sua famiglia: “Ero a casa. Ed era come se ci fossi sempre stata, anche se non li avevo visti per quasi undici anni.”

Damba Koroma entrerà all’università fra pochi mesi. Desidera studiare sviluppo e relazioni internazionali. La Sierra Leone, spiega, si sta ricostruendo dopo la guerra. La giovane spera di aiutare a mettere in piedi un ospedale per donne e bambini nel paese: “Aiutare gli altri è una passione, per me, perché è un modo per restituire quanto mi è stato dato. Così tante persone hanno aiutato me lungo la strada.”

Il mondo chiude un occhio


“Sono stata costretta a lasciare la scuola a 10 anni perché mi hanno data in moglie. Dopo 8 mesi ero divorziata. Vorrei che nessun’altra bambina soffrisse quello che io ho sofferto.” Madina, oggi 14enne, Sudan.

Ogni anno 10 milioni di bambine vanno spose. Dappertutto, senza che il continente, la cultura, la religione o la classe sociale facciano differenza. Spose di cinque anni, sposi di cinquanta. Bambine violentate per essere reclamate come mogli. Un debito pagato con una bimba di otto anni, una faida familiare risolta con la consegna di una dodicenne.

Se hai rapporti sessuali prematuri, arrivano le fistole se sei fortunata (si fa per dire) e il decesso per emorragia se lo sei meno. Se partorisci a quindici anni, hai cinque volte tanto la probabilità di morire nel processo di una ragazza di venti e tuo figlio ha il 60% di probabilità in più di non arrivare al primo anno d’età. Ma qualcuno mi ha chiesto se c’è davvero bisogno di dire, ancora, che le donne sono esseri umani e che per questo hanno diritti umani.

Si stima che attualmente le bambine-soldato al mondo siano 100.000. In genere rapite fra i 10 ed i 14 anni, si rivelano utilissime: possono portate fucili in spalla di giorno e rallegrare sessualmente interi accampamenti la notte. A differenza dei loro coetanei di sesso maschile, queste ragazzine suscitano poca compassione: se e quando riescono a lasciare le milizie, le loro comunità e famiglie non sono inclini a riaccoglierle, perché portano lo stigma delle violenze che hanno subito e le più grandi hanno magari già un figlio o due a cui non si sa cosa dar da mangiare. “Mio padre non vuole più vedermi perché della gente gli ha detto che i soldati hanno abusato di me.” è la testimonianza più frequente.

Molte muoiono di malattie a trasmissione sessuale. Alcune tornano dai gruppi armati perché persino essere schiave è meglio che crepare dell’indifferenza e del piccato sdegno altrui. Altre diventano prostitute in proprio. A 15 anni. Però qualcuno si chiede se c’è davvero necessità di ripetere che le donne sono esseri umani e che per questo hanno diritti umani.

In Afghanistan, ad esempio, il dibattito su quanti e quali diritti hanno le bambine si svolge così: se vanno a scuola si getta loro acido in faccia, gli si bruciano le scuole stesse e si ammazzano i loro insegnanti, uomini e donne che sono così poco rispettosi della loro stessa cultura da far veramente arrabbiare gli intellettuali nostrani (l’ultima vittima in ordine di tempo è Khan Mohammad, preside della scuola femminile Porak nella provincia di Logar, la cui testa è stata fatta esplodere a colpi d’arma da fuoco il 25 maggio 2011. I talebani lo avevano avvisato parecchie volte che alle bambine non si insegna, ma non ha voluto capire.). A scuola le bimbe non possono andare, ma a portar bombe sì. Le tradizioni devono evidentemente permetterlo. Solo durante il mese scorso hanno raggiunto le cronache le storie di due bambine-kamizake afgane, rapite alle loro famiglie in miseria, drogate ed imbottite di esplosivo. La prima, nove anni, è stata fermata in tempo; la seconda, otto anni, è stata fatta saltare in aria dagli attentatori il 26 giugno 2011.

In India ci si pensa per tempo. Non solo ne mancano 50 milioni, di questi esseri – le donne – che chissà perché mi ostino a credere umane e perciò portatrici di diritti umani, ma quelle restanti sono ancora troppe: i genitori le convertono in “maschi” con una plastica ai genitali. E’ un’industria fiorente ed in piena espansione, le famiglie si indebitano pur di pagare i 2 o 3mila euro per l’operazione. Una mezza dozzina di chirurghi dalla faccia di bronzo hanno dichiarato pubblicamente di aver “trasformato” ciascuno centinaia di bambine ogni anno (spesso si tratta di bambine di dodici mesi o poco più). A queste infanti viene costruito un “pene” usando i tessuti dei loro organi genitali, dopo di che gli si danno dei bei biberon di ormoni. Non potranno generare, avranno problemi di salute per tutta la vita, sono state derubate della loro stessa identità, ma chi se ne frega, almeno non sono femmine.

Ogni giorno sui giornali italiani spuntano i trafiletti che narrano di bambine e ragazzine violate, umiliate, picchiate, molte volte da ragazzi poco più grandi di loro: spuntano un giorno e spariscono il giorno dopo. Forse per rispetto alla nostra cultura. O forse perché qualcuno potrebbe chiedersi se è lecito trattare così degli esseri umani. Ma c’è proprio ancora bisogno di arrecare disturbo ripetendo che le donne fanno parte della specie umana? E’ così evidente che non è vero. Maria G. Di Rienzo

(Fonti: The Guardian, rapporto 2011 “Breaking Vows” dell’ong Plan UK, India Times, Hindustan Times, National Geographic, Institute for War & Peace Reporting, UN Women)

Diario di danza

L’articolo è apparso sul numero di giugno 2011 di NoStop, periodico della Filt Lombardia, e sì, è vero, la responsabile di redazione Vittoria Scordo è una donna meravigliosa ed è amica mia… e per le donne di Armonie ho amore sconfinato e stima altissima. Maria G. Di Rienzo



“Se non posso ballare, allora non è la mia rivoluzione”

Per il titolo dello stage che si è tenuto all’ass. Armonie di Bologna, il 3 e il 17 aprile, Maria G. Di Rienzo, chiamata a condurlo, ha proposto questa frase di Emma Goldman, che ci è piaciuta tantissimo, da subito. Nel sottotitolo, inteso a illustrare lo scopo degli incontri si legge: “Suggerimenti di resistenza e pratiche di comunicazione non violenta per donne” e per finire l’appello a partecipare: “Gradite femministe, attiviste, lesbiche, militanti …..”. E’ già un programma, fin dalle prime parole.

Un intento e un invito descritti anche dalle parole di Maria G. Di Rienzo: “Il nostro lavoro è complicato, urgente, multidimensionale. Stiamo lottando in tutto il mondo contro i signori della guerra e il terrorismo di stato, contro l’inquinamento e la privatizzazione dei beni comuni, contro il traffico di donne e bambine, contro la violenza domestica. Come attiviste possiamo parlare per ore di come fermare la guerra e di come metter fine alla violenza di genere, ma per discutere delle nostre paure non c’è tempo. La “causa” è ciò che importa, il nostro stress, la nostra ansia, la nostra fatica sono faccende private… oppure no?

Quando si è stanche e sotto pressione, comporre progetti efficaci e svilupparli o, semplicemente, analizzare nel modo più obiettivo possibile la situazione diventa difficile.

Preoccuparsi delle persone amate e di cosa faremo senza lavoro o senza pensione sono cose importanti quanto il finanziare i nostri gruppi o contrastare la violenza. Avere dalle nostre azioni un ritorno di energia e di speranza è importante quanto l’ottenere un risultato. Non c’è cambiamento ne’ per noi ne’ per gli altri, se noi, proprio noi attiviste, noi femministe, noi donne, non possiamo danzare.

Mantenere la nostra forza e la nostra gioia mentre lavoriamo per il cambiamento non è solo possibile: è necessario. Il condividere esperienze, l’ascoltare, il diversificare degli approcci potrebbero aiutarci. Che ne direste di provare?”

Maria G. Di Rienzo è nota e non solo alle lettrici di NoStop; ha attraversato con il suo impegno e la sua intelligenza vivace e ironica, gruppi, associazioni e movimenti, sostenendone le lotte e impegnandosi molto spesso in prima persona, cosa che non le ha impedito di accudire con sfrenata passione le sue gatte e di scrivere saggi e romanzi, l’ultimo “Nostra Signora della Luce”, un fantasy politico e militante da leggere tutto d’un fiato, facendosi trasportare da una scrittura inebriante sul sentiero ricco di immaginazione, senza per questo smettere di pensare ai problemi che affliggono la nostra realtà.

Ma perché la danza? (è dato per scontato che nessuna si chieda perché la rivoluzione). Perché nonostante sia opinione diffusa – diffusa da un’attenta e puntuale propaganda tesa a arginare lo scossone che il movimento delle donne ha dato al sistema patriarcale – che le femministe siano donne piene di acredine, verso i maschi e quelle che li seguono, che tendano a curarsi poco, abbassando drasticamente il consumo di ceretta e cosmetici con il preciso scopo di mettere in evidenza la loro intelligenza, che attentino al benessere delle mogli spronandole a non fare bambini e a rinunciare a quella bella famiglia che ne uccide un paio al giorno, di mogli, beh, dicevamo, nonostante queste e altre dicerie, le femministe, udite, udite, hanno come obiettivo principale della loro vita desiderare, perseguire il piacere e divertirsi. E subito dopo, oppure in contemporanea, cambiare lo stato delle cose. Due cose difficilissime da fare, per la maggior parte degli umani. Meno male che siamo donne, femministe, lesbiche e militanti e qualche speranza di riuscirci ce l’abbiamo.Ma la fatica è grande e i risultati non sempre soddisfacenti, e così i gruppi, i collettivi, le associazioni di donne soffrono di momenti di stanchezza, di rotture dolorose dei rapporti d’amicizia e di stima oppure non si riesce a rendere efficaci le nostre battaglie, di cui a volte fatichiamo a trovare il senso. Così abbiamo chiesto aiuto alla Giusi, come la chiamiamo noi tutte, anche se a lei non piace. Le abbiamo chiesto di darci una mano nel mettere a fuoco le situazioni di conflitto, le incomprensioni e i processi decisionali che si creano in ambiti politici tutti al femminile, dove non si decide per alzata di mano, dove c’è un rapporto da sempre irrisolto con il potere per come lo abbiamo conosciuto, per lo più subito, dagli uomini, dove il personale è politico e “i due concetti” sono entrati in uno slogan senza essere chiaramente definiti del tutto. Fin dall’inizio, la partecipazione ci ha dato conferma che c’era bisogno di una iniziativa simile; nel gruppo di una ventina di donne che si è formato c’erano sindacaliste, militanti contro la guerra, donne che hanno creato associazioni, altre uscite dai partiti, altre ancora “assetate di partecipazione”, un tessuto di esperienze e percorsi diversi che ha contribuito alla buona riuscita del seminario magistralmente condotto dalla nostra maestra. Grazie ad alcune pratiche, abbiamo identificato su quali meccanismi e attitudini si basa il nostro stare insieme, abbiamo appreso come gestire le incomprensioni e le delusioni inevitabili dello stare e dell’agire in gruppo. Abbiamo imparato a volerci più bene, a noi stesse e alle altre, e a superare quella divisione e diffidenza che il sistema patriarcale tende a creare nelle donne. Abbiamo imparato a conoscerci meglio, a capire che un diverso punto di vista arricchisce, che è solo la qualità dell’ascolto che permette la comprensione, che le cose si possono dire in modi diversi e che il linguaggio plasma la realtà che ci circonda. Tutte cose magari già conosciute, ma che avevano bisogno di un momento di esperienza, di confronto e magari anche di poesia, per essere veramente capite. Ed è una poesia che accompagna gli incontri:



COUNCILS
(Consigli, nel senso di consigli composti da persone)
di Marge Piercy
Trad. M.G. Di Rienzo

Dobbiamo sederci a ragionare insieme.
Dobbiamo sederci.
Quelli che stanno in piedi vogliono sproloquiare a pioggia su volti alzati verso di loro.
Dobbiamo sederci sul pavimento, sulla terra, su pietre e stuoie e coperte.
Non ci dev’essere una facciata a cui rivolgersi, nessuna piattaforma, nessun podio,
nessun palco o tavolo.
Non ci solleveremo per vedere chi sta parlando.
Forse dovremmo sedere al buio: al buio potremmo permetterci di dire i nostri sentimenti.
Al buio potremmo proporre, e descrivere, e suggerire.
Nell’oscurità non vedremmo chi parla, e solo le parole direbbero ciò che dicono.
Nessuno parlerebbe più di due volte.
Nessuno parlerebbe meno di una.
Così ci diremmo cosa proviamo e cosa vogliamo, cosa temiamo per noi stessi e gli altri.
Forse dovremmo parlare in gruppi, che sono la forma delle nuove famiglie:
una ventina di persone, più o meno.
Forse potremmo cominciare con il parlare dolcemente.
Le donne devono imparare ad osare la parola.
Gli uomini devono imparare la pazienza dell’ascolto.
Le donne devono imparare a dire: “Penso che sia così.”
Gli uomini devono imparare a smettere di ballare in solitario sul soffitto.
E dopo che ciascuno avrà parlato, lei o lui terminerà con una frase rituale:
“Non sono io che parlo, ma è il vento.
Il vento soffia attraverso di me.
Molto dopo di me, è il vento.”

Difficile descrivere le emozioni che ci hanno attraversato, nei due pomeriggi passati insieme; abbiamo contattato le molteplicità del nostro essere scoprendo le affinità con le direzioni cardinali:

ci siamo scoperte donne dell’est, pronte ad accogliere e a promuovere il cambiamento, donne dell’ovest inclini a riflettere su quanto succede e a custodire la memoria, donne vibranti dell’energia del sud che privilegiano la relazione e la cooperazione e sanno elargire calore e affetto, donne del nord brave a localizzare e a centrare gli obiettivi anche se il prezzo è la solitudine.

Ci siamo raccontate gli entusiasmi, le stanchezze, ci siamo divertite, abbiamo disegnato, ci siamo commosse e abbiamo riso, tantissimo e anche cantato. E deciso di continuare gli incontri a scadenza regolare, perché vogliamo diventare delle danzatrici provette mentre facciamo la rivoluzione.

Le donne di Armonie – www.women.armonie.it

Saltare nel vortice

Di Valarie Kaur, 14.6.2011 (americana sikh, autrice di filmati, attivista, dirige “Groundswell” – movimento di fedi diverse per la giustizia. Il suo film “Divisi cadiamo” registra il razzismo, l’odio e la guarigione negli Usa dopo l’11 settembre). Trad. Maria G. Di Rienzo

“Tati Vao Na Lagi, Par Brahm Sharnai…”

Mio nonno mi insegnò questa preghiera quando ero bambina. La mormorava mentre si legava il turbante, lavorava in giardino e ci portava a scuola in auto tutte le mattine. Consideravo questa preghiera, questo shabad delle scritture sikh, come il segreto della sua mancanza di paura. Quando fossi cresciuta, mi dicevo, sarei diventata confidente e coraggiosa come lui.

La preghiera era sulle mie labbra quando avevo vent’anni e mi stavo nascondendo in camera da letto. Un uomo della mia comunità era appena stato ucciso. Una donna pugnalata. E un’altra inseguita da una folla inferocita. I crimini dell’odio contro i musulmani eruppero attraverso gli Usa dopo l’11 settembre, ma non vennero riportati dai media.

La mia famiglia si è sistemata nel paese circa 100 anni fa, ed io sono un’americana sikh di terza generazione. Ma in quel momento, i nostri turbanti e la nostra pelle scura ci marchiavano automaticamente come sospetti, stranieri per sempre, e potenziali terroristi.

Ero terrorizzata e confusa. Mi sentivo come se una tromba d’aria stesse crescendo fuori dalla finestra della mia stanza. Volevo fare qualcosa, ma il copione diceva che una giovane donna di colore senza diploma universitario doveva tenere la testa bassa.

Sono arrivata a pensare alle crisi come questa come ai “momenti del vortice”. In questi momenti, il copione che ci hanno dato da seguire non suona vero. C’è dissonanza che risuona nelle nostre orecchie, le nostre mani tremano, nei nostri cuori si desta qualcosa, e abbiamo una scelta: continuare a sostenere lo status quo o seguire la nostra bussola morale – e saltare.

Non avrei potuto saltare da sola. Ma con la preghiera di mio nonno in mente, ho afferrato la camera da presa e ho cominciato un viaggio attraverso il paese per testimoniare i crimini dell’odio contro sikh, musulmani ed altri americani. All’inizio, mi pareva di volare. Mi sentivo invincibile con la mia videocamera e presto cominciai ad usarla per riprendere le storie delle persone che lottavano per la giustizia.

Fino ad un giorno. Nel 2004, sono stata arrestata di forza mentre filmavo una protesta a New York. Dietro le sbarre, reggendomi un braccio intorpidito che era stato malamente storto da un poliziotto, ho fatto esperienza di ciò che le donne sanno da secoli: sfidare lo status quo richiede un prezzo. Quando saltiamo nel vortice, cadiamo. Le donne e le ragazze che in tutto il mondo si oppongono all’oppressione nelle loro famiglie, o comunità, o paesi, pagano un prezzo – talvolta con le loro vite.

Dieci anni più tardi, sono una trentenne. Barack Obama è presidente, Osama bin Laden è appena morto. Non riesco ancora a scrivere senza provare dolore nel polso che mi era stato slogato.

Ma questo dolore mi ha mostrato che mettere fine ai cicli della violenza richiede la guarigione dei corpi e delle menti delle vittime e degli oppressori. Richiede l’umanizzare i nostri oppositori, di modo che noi si lavori per trasformarli, anziché per distruggerli e sostituirci a loro.

Ora so che il modo in cui operiamo il cambiamento è importante quando il cambiamento stesso. Non avrei mai appreso questo, senza cadere nel vortice. Oggi lavoro con straordinari compagni e compagne a disseppellire storie sepolte, attraverso i filmati, i reportage e le cause legali, per contribuire a guarire una nazione ancora divisa. I vortici si sono moltiplicati. Le istanze in gioco sono moltissime ed il bisogno di umanità nelle nostre lotte per la giustizia non è mai stato così grande.

Alcune settimane fa, ho condiviso la mia storia con le ragazze della scuola S. Domenico, un liceo femminile a nord di San Francisco. Alla fine del mio discorso, ho chiesto loro di condividere i loro “momenti del vortice”. Una ha alzato una mano: “Sono saltata nel vortice quando ho detto ai miei genitori di essere bisessuale. E’ stata dura, e all’inizio non hanno capito. Era il costo da pagare. Ma ora sto imparando ad essere libera.”

“Il mio vortice è stato venire dalla Cina in questo paese come migrante.”, ha detto un’altra ragazza.

“Il mio vortice è stato dire di essere ebrea in un liceo cristiano.”, ha detto un’altra ancora.

Ecco cos’ho imparato nel girovagare per gli Usa in 150 città, ascoltando assemblee scolastiche, congregazioni religiose e consigli d’amministrazione. C’è una fonte là fuori, una fonte di persone giovani che si stanno appellando alla loro fede o alla loro bussola morale per saltare nei vortici, piccoli e grandi.

Nessuna area della società ne è immune: le campagne spaziano dalla riforma delle leggi sull’immigrazione alla libertà religiosa e all’eguaglianza delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender, ma sono legate in una sola lotta per la giustizia, un movimento che guarisce e ripara il mondo. Stiamo diventando consci dell’interconnessione fra le cause più disparate, un tempo percepite ed agite come divise. E molti di noi stanno trascinando la propria fede e le proprie tradizioni nella lotta.

Come donne e ragazze, quando uniamo le braccia e saltiamo nel vortice insieme, cambiamo il mondo.

Quando mio nonno morì, io ero arrabbiata con lui perché mi aveva lasciata prima di insegnarmi il segreto del suo coraggio. La notte precedente il funerale, compresi infine il significato della preghiera che mi cantava da bambina.

“Tati Vao Na Lagi, Par Brahm Sharnai…” Significa: “I venti roventi non possono toccarmi, il Divino mi fa da rifugio.”

Fu la sua ultima lezione per me: quando salti nel vortice, cadi. Ma con la verità nel tuo cuore, sarai riparata dai vorticosi venti bollenti – e ti solleverai per cambiare il mondo.