Donne, guerra e pace

Di Abigail Disney, Trad. Maria G. Di Rienzo

L’11 ottobre scorso, commentando l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a tre donne, Abigail Disney ha presentato il suo nuovo lavoro. Abigail è l’autrice del film “Pray the devil back to hell” che documenta la lotta per la pace delle donne liberiane. Ora ha creato “Women, War and Peace”, una serie televisiva in cinque puntate che narra i ruoli delle donne nei contesti di conflitto armato, in onda dall’11 ottobre all’8 novembre.




Cinque anni fa, quando andai in Liberia, non avevo idea che il mio ruolo successivo sarebbe stato documentare e celebrare le donne che costruiscono la pace. Ma una storia di lotta e trionfo dopo l’altra, una storia di guida e sopravvivenza dopo l’altra, seppi che c’era qualcosa sotto la superficie della liberazione del paese che necessitava di essere portato alla luce.
Due anni più tardi, uscì il documentario “Pray the Devil Back to Hell”: parla di un gruppo di donne coraggiose ed ispirate – in semplici magliette bianche – che uniscono le loro forze attraversando regioni e religioni, per chiedere la pace. La loro leader, Leymah Gbowee, era  intuitiva e innovativa. I suoi piani brillanti, le sue tecniche semplici ed efficaci, ed il messaggio diretto: le donne liberiane vogliono la pace.

Oggi è un giorno di cui tener nota, che celebra donne notevoli. L’attivista e giornalista Tawakkul Karman è la prima donna araba a vincere il Premio Nobel per la Pace. E’ stata detenuta in Yemen all’inizio di quest’anno e ha detto che il riconoscimento a lei conferito è una vittoria per il suo paese e per l’intera “primavera araba”. Ellen Johnson Sirleaf è stata premiata con il Nobel per aver condotto in avanti un paese devastato. Leymah Gbowee ha vinto in nome di tutte le sue sorelle nei movimenti pacifisti dell’Africa occidentale.


Ci sono delle Leymah, delle Ellen e delle Tawakkul in tutto il mondo. Ed è sperabile che questo primo riconoscimento farà vedere quanto trasformative sono le donne per la pace e la democrazia. Dopo il documentario, ho capito quale era il mio compito: raccontare le storie delle donne che costruiscono la pace. Il risultato è “Women, War e Peace”, che va in onda sulla rete PBS. Nel costruire la serie televisiva con le co-creatrici Pamela Hogan e Gini Reticker, ho avuto il privilegio di conoscere alcune di queste costruttrici di pace.
Tramite loro, e tramite anni di ricerche, ho finito per comprendere cosa significa costruire la pace. Cosa connette le costruttrici nella decisione collettiva del creare la pace nei loro rispettivi paesi. Come individui sono tutte speciali ed uniche, ma come costruttrici di pace mettono radici nella somiglianza con le altre. Sono orientate all’azione, “fattrici”, creatrici. Coloro che costruiscono la pace si guardano intorno e non solo credono ci si possa muovere fuori dalla guerra e dal caos, ma prendono decisioni per portarci là. La pace è la scelta attiva di vivere in comunione con gli altri.
So che tutti noi possiamo svolgere un ruolo nei movimenti che costruiscono la pace. Possiamo essere tutti costruttori di pace: di taglia piccola, media o grande. Possiamo respingere l’estetica della violenza e l’infinita romanticizzazione del combattimento che sta alle fondamenta del complesso industriale hollywoodiano. Possiamo scegliere di agire. Imparare di più. Fare di più. Possiamo scegliere di vivere nella comunità globale costruendo pace.
Oggi è un giorno straordinario per le donne costruttrici di pace. Facciamo in modo che non sia l’ultimo.

Lettera aperta alle Nazioni Unite


Dobbiamo essere uniti. La violenza contro le donne non può essere tollerata, in nessuna forma, in nessun contesto, in nessuna circostanza, da nessun leader politico e da nessun governo.” Ban Ki-Moon, Segretario Generale delle Nazioni Unite.

Egregio Segretario Generale,
chi si permette di scriverle è una cittadina italiana che ha letto e riletto non solo quella sua dichiarazione summenzionata, ma gli innumerevoli impegni internazionali sottoscritti in tal senso dal paese in cui vive. A dar retta alle carte, dovrei trovarmi in un paese civile. Peccato che esso abbia la più alta incidenza europea di donne assassinate dalla violenza domestica: una ogni 2/3 giorni. Peccato che i Centri antiviolenza italiani abbiano cessato di essere finanziati e molti stiano chiudendo. Peccato che le immagini delle donne proposte dai media e dagli annunci pubblicitari italiani siano largamente sessiste e pornografiche. Peccato che una donna italiana, a parità di qualifica e mansioni, guadagni dal 10 al 18% in meno del suo collega di sesso maschile. Peccato che oggi, 6 ottobre 2011, si seppelliscano delle giovani donne morte sul lavoro: un lavoro “in nero”, fino a 14 ore al giorno per meno di quattro euro l’ora. Peccato che l’Italia detenga anche l’infame record della percentuale più alta di donne molestate sul lavoro in Europa. Peccato che, sulla scia di altre sentenze relative alla violenza sessuale che hanno già svergognato questo paese di fronte al mondo intero, di recente un tribunale abbia definito il palpeggiamento di studentesse minorenni da parte di un loro docente un mero “corteggiamento invasivo”.
Poiché questa è una lettera aperta, ripeterò in breve delle cose che le sono note, e cioè che la violenza è un modo per controllare le donne, sia nelle famiglie sia nella società, e tenerle in una posizione subordinata agli uomini, e che la violenza contro le donne non è accidentale: è strutturale, e perciò sono strutturali le soluzioni per eliminarla. Leggi inadeguate, immagini mediatiche negative, mancanza di servizi, compiacenza dei governi e assenza di programmi che affrontino le cause e le conseguenze della violenza di genere non fanno che aumentare la dose di violenza di cui le donne fanno esperienza.
La struttura della violenza, come lei sa, non nasce dal nulla e la sua crescita è un’escalation in cui, ad esempio, suggerendo che la prostituzione sia innocente divertimento per chi ne usufruisce e occasione di posizionamento sociale per chi la esercita, che comprare il corpo di una donna sia normale e lecito, e rappresentando ossessivamente le donne come oggetti sessuali, si crea il “contesto culturale” favorevole a ridurre donne e bambine a semplici giocattoli per gli uomini. E se poi il giocattolo si rompe, sig. Segretario, diventa difficile biasimare chi l’ha rotto: un giocattolo non è un essere umano.
Oggi, il nostro Presidente del Consiglio annuncia l’intenzione di cambiare nome al suo partito: potrebbe chiamarlo, dice, “Forza Gnocca”. Si tratta dello stesso uomo che spende centinaia di migliaia di euro l’anno per i suoi festini con prostitute, il proprietario di gran parte dei media in cui le donne sono per lo più pezzi di anatomia in mostra, l’autore di dichiarazioni volgari e offensive su altri capi di stato di sesso femminile e sulle donne in generale. I membri del suo governo e della sua coalizione non sono da meno. Potrà trovare riscontro di quanto le dico sulla stampa internazionale, qui mi limito a citarle il Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali che, il mese scorso, “spiega” così, in pubblico, la manovra economica: “In un convento irrompono dei briganti e violentano tutte le suore. Una sola viene risparmiata. Perché ha detto di no.”
Suggerire che le donne desiderino lo stupro, che la violenza sessuale subita sia loro responsabilità e che potrebbero evitarla con un “no” è cosa, dicono i sostenitori del Ministro, di cui dovrei ridere. In Italia si stuprano 4 donne al giorno ed io non lo trovo divertente.
Considerato l’atteggiamento del governo italiano nei confronti della violenza di genere io credo che le Nazioni Unite, di cui l’Italia è stato membro, possano e debbano fornire ad esso almeno delle raccomandazioni, fra cui l’adozione del Piano antiviolenza divisato dall’Agenzia Donne delle NU. La prego, pertanto, di fare quanto in suo potere perché ciò avvenga. Una presa di posizione da parte di un organismo così autorevole potrebbe dar sostegno e speranza a chi lavora ogni giorno per mettere fine alla violenza e restituire dignità alle sue vittime.

Con profondo rispetto, Maria G. Di Rienzo