Diario di danza

L’articolo è apparso sul numero di giugno 2011 di NoStop, periodico della Filt Lombardia, e sì, è vero, la responsabile di redazione Vittoria Scordo è una donna meravigliosa ed è amica mia… e per le donne di Armonie ho amore sconfinato e stima altissima. Maria G. Di Rienzo



“Se non posso ballare, allora non è la mia rivoluzione”

Per il titolo dello stage che si è tenuto all’ass. Armonie di Bologna, il 3 e il 17 aprile, Maria G. Di Rienzo, chiamata a condurlo, ha proposto questa frase di Emma Goldman, che ci è piaciuta tantissimo, da subito. Nel sottotitolo, inteso a illustrare lo scopo degli incontri si legge: “Suggerimenti di resistenza e pratiche di comunicazione non violenta per donne” e per finire l’appello a partecipare: “Gradite femministe, attiviste, lesbiche, militanti …..”. E’ già un programma, fin dalle prime parole.

Un intento e un invito descritti anche dalle parole di Maria G. Di Rienzo: “Il nostro lavoro è complicato, urgente, multidimensionale. Stiamo lottando in tutto il mondo contro i signori della guerra e il terrorismo di stato, contro l’inquinamento e la privatizzazione dei beni comuni, contro il traffico di donne e bambine, contro la violenza domestica. Come attiviste possiamo parlare per ore di come fermare la guerra e di come metter fine alla violenza di genere, ma per discutere delle nostre paure non c’è tempo. La “causa” è ciò che importa, il nostro stress, la nostra ansia, la nostra fatica sono faccende private… oppure no?

Quando si è stanche e sotto pressione, comporre progetti efficaci e svilupparli o, semplicemente, analizzare nel modo più obiettivo possibile la situazione diventa difficile.

Preoccuparsi delle persone amate e di cosa faremo senza lavoro o senza pensione sono cose importanti quanto il finanziare i nostri gruppi o contrastare la violenza. Avere dalle nostre azioni un ritorno di energia e di speranza è importante quanto l’ottenere un risultato. Non c’è cambiamento ne’ per noi ne’ per gli altri, se noi, proprio noi attiviste, noi femministe, noi donne, non possiamo danzare.

Mantenere la nostra forza e la nostra gioia mentre lavoriamo per il cambiamento non è solo possibile: è necessario. Il condividere esperienze, l’ascoltare, il diversificare degli approcci potrebbero aiutarci. Che ne direste di provare?”

Maria G. Di Rienzo è nota e non solo alle lettrici di NoStop; ha attraversato con il suo impegno e la sua intelligenza vivace e ironica, gruppi, associazioni e movimenti, sostenendone le lotte e impegnandosi molto spesso in prima persona, cosa che non le ha impedito di accudire con sfrenata passione le sue gatte e di scrivere saggi e romanzi, l’ultimo “Nostra Signora della Luce”, un fantasy politico e militante da leggere tutto d’un fiato, facendosi trasportare da una scrittura inebriante sul sentiero ricco di immaginazione, senza per questo smettere di pensare ai problemi che affliggono la nostra realtà.

Ma perché la danza? (è dato per scontato che nessuna si chieda perché la rivoluzione). Perché nonostante sia opinione diffusa – diffusa da un’attenta e puntuale propaganda tesa a arginare lo scossone che il movimento delle donne ha dato al sistema patriarcale – che le femministe siano donne piene di acredine, verso i maschi e quelle che li seguono, che tendano a curarsi poco, abbassando drasticamente il consumo di ceretta e cosmetici con il preciso scopo di mettere in evidenza la loro intelligenza, che attentino al benessere delle mogli spronandole a non fare bambini e a rinunciare a quella bella famiglia che ne uccide un paio al giorno, di mogli, beh, dicevamo, nonostante queste e altre dicerie, le femministe, udite, udite, hanno come obiettivo principale della loro vita desiderare, perseguire il piacere e divertirsi. E subito dopo, oppure in contemporanea, cambiare lo stato delle cose. Due cose difficilissime da fare, per la maggior parte degli umani. Meno male che siamo donne, femministe, lesbiche e militanti e qualche speranza di riuscirci ce l’abbiamo.Ma la fatica è grande e i risultati non sempre soddisfacenti, e così i gruppi, i collettivi, le associazioni di donne soffrono di momenti di stanchezza, di rotture dolorose dei rapporti d’amicizia e di stima oppure non si riesce a rendere efficaci le nostre battaglie, di cui a volte fatichiamo a trovare il senso. Così abbiamo chiesto aiuto alla Giusi, come la chiamiamo noi tutte, anche se a lei non piace. Le abbiamo chiesto di darci una mano nel mettere a fuoco le situazioni di conflitto, le incomprensioni e i processi decisionali che si creano in ambiti politici tutti al femminile, dove non si decide per alzata di mano, dove c’è un rapporto da sempre irrisolto con il potere per come lo abbiamo conosciuto, per lo più subito, dagli uomini, dove il personale è politico e “i due concetti” sono entrati in uno slogan senza essere chiaramente definiti del tutto. Fin dall’inizio, la partecipazione ci ha dato conferma che c’era bisogno di una iniziativa simile; nel gruppo di una ventina di donne che si è formato c’erano sindacaliste, militanti contro la guerra, donne che hanno creato associazioni, altre uscite dai partiti, altre ancora “assetate di partecipazione”, un tessuto di esperienze e percorsi diversi che ha contribuito alla buona riuscita del seminario magistralmente condotto dalla nostra maestra. Grazie ad alcune pratiche, abbiamo identificato su quali meccanismi e attitudini si basa il nostro stare insieme, abbiamo appreso come gestire le incomprensioni e le delusioni inevitabili dello stare e dell’agire in gruppo. Abbiamo imparato a volerci più bene, a noi stesse e alle altre, e a superare quella divisione e diffidenza che il sistema patriarcale tende a creare nelle donne. Abbiamo imparato a conoscerci meglio, a capire che un diverso punto di vista arricchisce, che è solo la qualità dell’ascolto che permette la comprensione, che le cose si possono dire in modi diversi e che il linguaggio plasma la realtà che ci circonda. Tutte cose magari già conosciute, ma che avevano bisogno di un momento di esperienza, di confronto e magari anche di poesia, per essere veramente capite. Ed è una poesia che accompagna gli incontri:



COUNCILS
(Consigli, nel senso di consigli composti da persone)
di Marge Piercy
Trad. M.G. Di Rienzo

Dobbiamo sederci a ragionare insieme.
Dobbiamo sederci.
Quelli che stanno in piedi vogliono sproloquiare a pioggia su volti alzati verso di loro.
Dobbiamo sederci sul pavimento, sulla terra, su pietre e stuoie e coperte.
Non ci dev’essere una facciata a cui rivolgersi, nessuna piattaforma, nessun podio,
nessun palco o tavolo.
Non ci solleveremo per vedere chi sta parlando.
Forse dovremmo sedere al buio: al buio potremmo permetterci di dire i nostri sentimenti.
Al buio potremmo proporre, e descrivere, e suggerire.
Nell’oscurità non vedremmo chi parla, e solo le parole direbbero ciò che dicono.
Nessuno parlerebbe più di due volte.
Nessuno parlerebbe meno di una.
Così ci diremmo cosa proviamo e cosa vogliamo, cosa temiamo per noi stessi e gli altri.
Forse dovremmo parlare in gruppi, che sono la forma delle nuove famiglie:
una ventina di persone, più o meno.
Forse potremmo cominciare con il parlare dolcemente.
Le donne devono imparare ad osare la parola.
Gli uomini devono imparare la pazienza dell’ascolto.
Le donne devono imparare a dire: “Penso che sia così.”
Gli uomini devono imparare a smettere di ballare in solitario sul soffitto.
E dopo che ciascuno avrà parlato, lei o lui terminerà con una frase rituale:
“Non sono io che parlo, ma è il vento.
Il vento soffia attraverso di me.
Molto dopo di me, è il vento.”

Difficile descrivere le emozioni che ci hanno attraversato, nei due pomeriggi passati insieme; abbiamo contattato le molteplicità del nostro essere scoprendo le affinità con le direzioni cardinali:

ci siamo scoperte donne dell’est, pronte ad accogliere e a promuovere il cambiamento, donne dell’ovest inclini a riflettere su quanto succede e a custodire la memoria, donne vibranti dell’energia del sud che privilegiano la relazione e la cooperazione e sanno elargire calore e affetto, donne del nord brave a localizzare e a centrare gli obiettivi anche se il prezzo è la solitudine.

Ci siamo raccontate gli entusiasmi, le stanchezze, ci siamo divertite, abbiamo disegnato, ci siamo commosse e abbiamo riso, tantissimo e anche cantato. E deciso di continuare gli incontri a scadenza regolare, perché vogliamo diventare delle danzatrici provette mentre facciamo la rivoluzione.

Le donne di Armonie – www.women.armonie.it

Saltare nel vortice

Di Valarie Kaur, 14.6.2011 (americana sikh, autrice di filmati, attivista, dirige “Groundswell” – movimento di fedi diverse per la giustizia. Il suo film “Divisi cadiamo” registra il razzismo, l’odio e la guarigione negli Usa dopo l’11 settembre). Trad. Maria G. Di Rienzo

“Tati Vao Na Lagi, Par Brahm Sharnai…”

Mio nonno mi insegnò questa preghiera quando ero bambina. La mormorava mentre si legava il turbante, lavorava in giardino e ci portava a scuola in auto tutte le mattine. Consideravo questa preghiera, questo shabad delle scritture sikh, come il segreto della sua mancanza di paura. Quando fossi cresciuta, mi dicevo, sarei diventata confidente e coraggiosa come lui.

La preghiera era sulle mie labbra quando avevo vent’anni e mi stavo nascondendo in camera da letto. Un uomo della mia comunità era appena stato ucciso. Una donna pugnalata. E un’altra inseguita da una folla inferocita. I crimini dell’odio contro i musulmani eruppero attraverso gli Usa dopo l’11 settembre, ma non vennero riportati dai media.

La mia famiglia si è sistemata nel paese circa 100 anni fa, ed io sono un’americana sikh di terza generazione. Ma in quel momento, i nostri turbanti e la nostra pelle scura ci marchiavano automaticamente come sospetti, stranieri per sempre, e potenziali terroristi.

Ero terrorizzata e confusa. Mi sentivo come se una tromba d’aria stesse crescendo fuori dalla finestra della mia stanza. Volevo fare qualcosa, ma il copione diceva che una giovane donna di colore senza diploma universitario doveva tenere la testa bassa.

Sono arrivata a pensare alle crisi come questa come ai “momenti del vortice”. In questi momenti, il copione che ci hanno dato da seguire non suona vero. C’è dissonanza che risuona nelle nostre orecchie, le nostre mani tremano, nei nostri cuori si desta qualcosa, e abbiamo una scelta: continuare a sostenere lo status quo o seguire la nostra bussola morale – e saltare.

Non avrei potuto saltare da sola. Ma con la preghiera di mio nonno in mente, ho afferrato la camera da presa e ho cominciato un viaggio attraverso il paese per testimoniare i crimini dell’odio contro sikh, musulmani ed altri americani. All’inizio, mi pareva di volare. Mi sentivo invincibile con la mia videocamera e presto cominciai ad usarla per riprendere le storie delle persone che lottavano per la giustizia.

Fino ad un giorno. Nel 2004, sono stata arrestata di forza mentre filmavo una protesta a New York. Dietro le sbarre, reggendomi un braccio intorpidito che era stato malamente storto da un poliziotto, ho fatto esperienza di ciò che le donne sanno da secoli: sfidare lo status quo richiede un prezzo. Quando saltiamo nel vortice, cadiamo. Le donne e le ragazze che in tutto il mondo si oppongono all’oppressione nelle loro famiglie, o comunità, o paesi, pagano un prezzo – talvolta con le loro vite.

Dieci anni più tardi, sono una trentenne. Barack Obama è presidente, Osama bin Laden è appena morto. Non riesco ancora a scrivere senza provare dolore nel polso che mi era stato slogato.

Ma questo dolore mi ha mostrato che mettere fine ai cicli della violenza richiede la guarigione dei corpi e delle menti delle vittime e degli oppressori. Richiede l’umanizzare i nostri oppositori, di modo che noi si lavori per trasformarli, anziché per distruggerli e sostituirci a loro.

Ora so che il modo in cui operiamo il cambiamento è importante quando il cambiamento stesso. Non avrei mai appreso questo, senza cadere nel vortice. Oggi lavoro con straordinari compagni e compagne a disseppellire storie sepolte, attraverso i filmati, i reportage e le cause legali, per contribuire a guarire una nazione ancora divisa. I vortici si sono moltiplicati. Le istanze in gioco sono moltissime ed il bisogno di umanità nelle nostre lotte per la giustizia non è mai stato così grande.

Alcune settimane fa, ho condiviso la mia storia con le ragazze della scuola S. Domenico, un liceo femminile a nord di San Francisco. Alla fine del mio discorso, ho chiesto loro di condividere i loro “momenti del vortice”. Una ha alzato una mano: “Sono saltata nel vortice quando ho detto ai miei genitori di essere bisessuale. E’ stata dura, e all’inizio non hanno capito. Era il costo da pagare. Ma ora sto imparando ad essere libera.”

“Il mio vortice è stato venire dalla Cina in questo paese come migrante.”, ha detto un’altra ragazza.

“Il mio vortice è stato dire di essere ebrea in un liceo cristiano.”, ha detto un’altra ancora.

Ecco cos’ho imparato nel girovagare per gli Usa in 150 città, ascoltando assemblee scolastiche, congregazioni religiose e consigli d’amministrazione. C’è una fonte là fuori, una fonte di persone giovani che si stanno appellando alla loro fede o alla loro bussola morale per saltare nei vortici, piccoli e grandi.

Nessuna area della società ne è immune: le campagne spaziano dalla riforma delle leggi sull’immigrazione alla libertà religiosa e all’eguaglianza delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender, ma sono legate in una sola lotta per la giustizia, un movimento che guarisce e ripara il mondo. Stiamo diventando consci dell’interconnessione fra le cause più disparate, un tempo percepite ed agite come divise. E molti di noi stanno trascinando la propria fede e le proprie tradizioni nella lotta.

Come donne e ragazze, quando uniamo le braccia e saltiamo nel vortice insieme, cambiamo il mondo.

Quando mio nonno morì, io ero arrabbiata con lui perché mi aveva lasciata prima di insegnarmi il segreto del suo coraggio. La notte precedente il funerale, compresi infine il significato della preghiera che mi cantava da bambina.

“Tati Vao Na Lagi, Par Brahm Sharnai…” Significa: “I venti roventi non possono toccarmi, il Divino mi fa da rifugio.”

Fu la sua ultima lezione per me: quando salti nel vortice, cadi. Ma con la verità nel tuo cuore, sarai riparata dai vorticosi venti bollenti – e ti solleverai per cambiare il mondo.

I peggiori amici

Più di 70.000 membri delle forze dell’ordine hanno ricevuto un intensivo addestramento. Ora sciameranno nelle strade del libero e devoto Iran per “combattere l’invasione culturale occidentale”. Innanzitutto, dal 14 giugno 2011 agli uomini iraniani è proibito indossare collanine ed aver tagli di capelli “eccessivi”: troppo lunghi, troppo corti, con le meche? Lo sanno dio (forse) e l’ayatollah Ali Khamenei, che della polizia morale nomina i capi. Ma stiano attente le donne a fazzoletti indossati in modo non abbastanza stretto, a maniche corte e pantaloni corti ed ai capelli legati in “decadenti” code di cavallo: il “Piano per la sicurezza morale” non tollererà più tali crimini. Mi dite che quando ci sono 30/40° gradi all’ombra vorreste vestirvi in modo da poter respirare? State a casa, in prossimità di un frigorifero aperto. Anzi, se avete una cantina seppellitevi là fin che non arriva l’autunno. Ma quando uscirete e farà freddo, ricordatevi bene che sono proibiti anche i “cappotti aderenti”. Mi dite che non vi risulta che dio si preoccupi di come legate i vostri capelli? Smettete di leggere il Corano, femmine infedeli, quello che dice dio lo decidono gli ayatollah, punto e basta.

Nell’ambito della crociata, il Parlamento iraniano ha in questi giorni proposto una legge per rendere reato il possedere cani. Avete letto bene, avere un cane “è una cieca imitazione della volgare cultura occidentale.”

Come potete osservare dalle immagini, i persiani devono aver cominciato assai presto ad involgarirsi con questi animali imperialisti, probabilmente da prima che l’Islam facesse il suo ingresso nella regione, e sicuramente da prima che l’ayatollah Makarem Shirazi, l’anno scorso, emanasse la sua ridicola fatwa contro chi tiene in casa un cane. Che siano indigeni e non importati, i cani iraniani? Temo di sì.

Chi li tiene come animali da compagnia, tra l’altro, è una ristretta minoranza. Non è che a Teheran chiunque abbia due levrieri e un bastardino e li porti tutti a fare la cacca davanti alla sede del Parlamento. Se il cane è il miglior amico dell’uomo, altrettanto non si può dire di Khamenei, Shirazi e compagnia.

"Il giovane incontra l'eremita", il cane fa capolino in alto
Davvero non so cosa ne penserebbe il Profeta, ma sono sicura che il suo gatto, a questi cialtroni che seminano paura e dolore in nome suo, sputerebbe negli occhi. Maria G. Di Rienzo

(fonti: The Guardian, UN Women, Iranfocus)

Liberatela


Che volto ha il vento del cambiamento nel Bahrain? Quello di Ayat al-Qarmezi, ventenne, donna, poeta. Nel febbraio scorso, Ayat ha preso parola pubblicamente durante un raduno di piazza che intendeva chiedere riforme al governo del paese. Ha recitato una sua poesia, che conteneva questi versi: “Noi siamo la gente che ucciderà l’umiliazione ed assassinerà la miseria / Non udite i loro pianti? Non udite le loro grida?”. Perciò la sua casa è stata devastata dalla polizia, i suoi fratelli minacciati di morte se lei non fosse stata consegnata, ed è infine stata condannata il 12 giugno u.s. ad un anno di prigione.

Sono passati sei miseri giorni in cui, fino ad ora, i suoi carcerieri le hanno frustato il viso con un cavo elettrico, l’hanno tenuta in un cella minuscola a temperatura da congelamento e l’hanno costretta a pulire le tazze dei bagni con le nude mani.

Pensarci mi causa sofferenza, ma nulla di quel che le hanno fatto mi sorprende. Il volto di Ayat è un volto di donna, il volto di Ayat è la speranza e la trasformazione, e le sue mani hanno prodotto bellezza. Ascoltate:

Noi non viviamo in un palazzo
E non cerchiamo il potere
Noi siamo le persone che
frantumano l’umiliazione
e rigettano l’oppressione
Con la pace come nostro attrezzo
Noi siamo le persone che
non vogliono che altri vivano nelle Ere Oscure.

Amnesty International, Human Rights Watch ed il quotidiano britannico “The Independent” stanno vivacemente protestando per il trattamento inflitto alla giovane donna e ad altri prigionieri arrestati per aver partecipato a dimostrazioni e condannati da tribunali militari. La risposta del governo del Bahrain, per il momento, è che esso farà causa al quotidiano inglese (difficile farla alle organizzazioni pro diritti umani…) per aver “orchestrato una campagna diffamatoria” nei suoi confronti. Non credo che sia legalmente possibile ma qualche idiozia dovevano pur dirla. D’altronde, dovete capire che il 16 giugno scorso The Independent titolava: “Liberate Ayat subito, dice Amnesty al regime di Bahrain”, un delitto davvero senza pari… non c’è paragone con le torture che Ayat ha subito.

Vediamo se riesco a farmi denunciare anch’io. Alle autorità del Bahrain: Liberate Ayat al-Qarmezi. Liberatela. Liberatela subito. Non affamateci di un’altra sorella mancante, non deprivateci del suo viso e delle sue mani, non toglieteci le sue poesie. Maria G. Di Rienzo

P.S. Non ho trovato la petizione a suo sostegno sul sito italiano di AI, ma su quello inglese c’è:
http://action.amnesty.org.uk/ea-action/action?ea.client.id=1194&ea.campaign.id=10918 

Las Guerreras

Le cifre messicane sono qua: 11 sindaci assassinati lo scorso anno; circa 40.000 persone uccise in scontri relativi alla guerra fra “cartelli” della droga dal 2006 ad oggi (il 90% della cocaina diretta agli Usa passa per il Messico); 5.000 donne e ragazze assassinate a Ciudad Juarez in dieci anni.

Da quest’ultima città si continua a scappare ed il 60% di quelli che vi abitano ancora lo fanno perché sono così poveri da non potersi permettere uno spostamento. Più di 10.000 fra esercizi ed attività economiche hanno chiuso i battenti a Ciudad Juarez da quando la “guerra della droga” è scoppiata quattro anni fa ed ha instaurato quel circolo vizioso che chiudendo ogni altra opportunità spinge le persone ad arruolarsi nei cartelli del traffico.

In quella che una volta era la zona turistica di Ciudad Juarez le mura degli alberghi e dei ristoranti abbandonati si sbriciolano e l’area pullula di poliziotti federali pesantemente armati e con le facce coperte: 50.000 fra soldati e agenti delle forze dell’ordine sono coinvolti nella campagna militare contro i cartelli della droga lanciata, a partire dal 2006, dal presidente messicano Felipe Calderon. La violenza è da allora aumentata in maniera esponenziale, seminando ovunque paura e miseria.

Alcune donne hanno deciso di affrontare la questione e di tentare di risolverla a modo loro. Il motivo, spiega Lorenia Granados, vigile urbano di 42 anni, è che “Abbiamo visto e sperimentato così tanto dolore. Siamo stanche della sofferenza.” Perciò sono nate Las Guerreras (Le Guerriere), un gruppo di donne che girano per la città in sella a grandi motociclette rosa, fornendo assistenza alle famiglie ferite e impoverite dalla violenza. Sono insegnanti, casalinghe, commercianti. Vestite di porpora sgargiante, con la sigla “Las Guerreras” dipinta sui mezzi, sciamano per le strade fra gli applausi e i cori d’incoraggiamento di uomini e donne, di anziani e bambini.

All’inizio di questo mese (giugno 2011) hanno consegnato una carrozzella ad un bimbo disabile di 7 anni che vive in una delle zone più pericolose della città, un posto in cui le sparatorie sono quotidiane. Daniel, il piccolo in questione, non può camminare a causa della mancanza di ossigeno di cui ha sofferto quando era ancora nel ventre di sua madre. La mamma di Daniel è morta nel 2008, colpita alla testa da un proiettile vagante mentre due gang si combattevano all’esterno di un negozio; nel 2009 suo zio, un sacerdote, è stato assassinato davanti alla propria abitazione in pieno giorno; l’anno scorso è toccato a sua nonna: crivellata di pallottole mentre tornava a casa dopo aver fatto la spesa. “Come per la maggior parte delle morti violente in questa città non abbiamo la più pallida idea del perché sono accadute.”, spiega Reveles Dominguez, la zia di Daniel, “I miei parenti non sono coinvolti nei cartelli della droga, siamo gente normale che tenta di condurre un’esistenza normale.” Da tre anni a questa parte la famiglia, di cui fanno parte 6 bimbi traumatizzati dagli eventi, è terrorizzata all’idea di uscire di casa; a causa delle sparatorie ricorrenti gli adulti hanno dovuto chiudere il piccolo negozio che possedevano e ciò li ha lasciati senza introito alcuno.

Ecco perché di una cosa semplice come il dono della carrozzella Reveles Dominguez dice: “Queste donne hanno cambiato la nostra vita.” Non solo perché Daniel, che precedentemente si muoveva solo grazie all’essere trasportato dagli altri, guadagna autonomia e partecipazione, ma perché tutti loro, grazie al gesto delle “guerriere”, hanno guadagnato speranza. Ora pensano e dicono che Ciudad Juarez deve ricostruire se stessa, cambiare, ricominciare.

Anche Lorenia Granados ne è convinta: “Mi auguro che sempre più donne si aggiungano a noi. Potremmo essere anche poca cosa, ma il nostro sogno è di ispirare le persone ad aiutarsi le une con le altre, e di portare speranza alla nostra gente che ha sofferto troppo.”

Maria G. Di Rienzo

Una conversazione con Wajeha al-Huwaider

Di Katha Pollitt per The Nation, 8.6.2011 (trad. Maria G. Di Rienzo)

Wajeha al-Huwaider è forse la più nota attivista saudita per i diritti delle donne, i diritti umani e la democrazia. Ha protestato energicamente contro la mancanza di leggi formali nel regno (supplisce il Corano) e di libertà basilari, in particolare contro il sistema di “tutela” grazie al quale ogni femmina, dalla nascita alla morte, necessita del permesso di un parente maschio per prendere decisioni in ogni area importante della sua vita: istruzione, viaggi, matrimonio, impiego, danaro e persino interventi chirurgici.
Nel 2008, un video di Wajeha che guida l’automobile (cosa proibita alle donne in Arabia Saudita) ha fatto sensazione quando è stato postato su YouTube. Al-Huwaider è una convinta sostenitrice del Movimento 17 giugno, che chiama le donne a guidare l’auto in quella data, ed ha prodotto il celebre video della co-fondatrice del movimento stesso Manal al-Sherif: Manal è stata arrestata per breve tempo dalla polizia quando ha tentato di far visita a Nathalie Morin, una donna franco-canadese tenuta segregata dal marito assieme ai suoi bambini.

Wajeha regge il cartello: "Le auto vogliono essere guidate da donne saudite"

Perché le proteste in automobile? E perché ora?

Le questione delle donne autiste è rimasta irrisolta sin dalle proteste simili del 1990. Proprio prima di lanciare la campagna del 17 giugno, un gruppo di donne e uomini assai conosciuti hanno firmato una lettera diretta alla Shura, o Assemblea consultiva, chiedendo di riaprire la discussione. Il loro tentativo è stato respinto. Questa è stata la scintilla che ha fatto scattare la protesta di Manal e di altre donne. La questione è sempre lì.

Di quanto sostegno godono le guidatrici?
 E’ difficile dirlo con esattezza, ma sta crescendo, e potrebbe ammontare a più del 50% della società saudita.

Ho incontrato una donna saudita, a Houston, che ha riso di questa concentrazione sulla guida (mi stava proprio portando in macchina ad un incontro, in quel momento). Lei dice che il bando non è importante perché “chiunque” in Arabia Saudita ha un autista. In che modo non poter guidare rende difficoltose le vite delle donne saudite?
Non ogni famiglia può permettersi di assumere un autista. Molte donne devono fare affidamento sui parenti maschi, che possono non essere disponibili o non essere disposti a guidare quando le donne ne hanno bisogno. E’ incredibilmente frustrante! Inoltre, non tutti vogliono un autista. Io non ce l’ho, e neppure Manal. Noi non abbiamo un sistema di trasporti pubblici, perciò io cammino per tutto il tempo, e prendo tassì per tornare a casa dopo aver fatto la spesa. Ma in moltissimi villaggi, questo “lusso” del tassì non è alla portata delle donne.

Non è strano che alle saudite non sia permesso restare da sole con un uomo che non sia un parente, fatta eccezione per gli autisti?
Chi ci governa rompe facilmente le sue stesse leggi pur di mantenere le donne isolate. In un altro paese, una donna con un autista sarebbe vista come una privilegiata: qui, il messaggio è che ella è debole e inaffidabile. Questo tipo di attitudine si trasmette di generazione in generazione. Anche dopo che le donne avranno ottenuto il diritto di guidare ci vorranno anni per liberarsene.

Nella maggioranza dei paesi musulmani, persino in una monarchia come il Marocco, le donne hanno più libertà sociali e diritti legali che in Arabia Saudita. Perché l’Arabia Saudita è così impegnata a reprimere le donne?
 A dire il vero è impegnata a reprimere chiunque, uomini e donne, sauditi e non sauditi. E’ la ragione per cui la polizia religiosa vaga per le strade molestando e arrestando le persone. I ragazzi sono picchiati solo perché portano i capelli lunghi. Ma la polizia è più brutale con le donne, perché le donne sono metà della società, e crescono l’altra metà. Perciò reprimere le donne ed instillare paura in loro è il modo più efficace di controllare la società intera.
Esempi di progressi sauditi: la Shura ha appena raccomandato che si permetta alle donne di votare alle elezioni locali, ma non di essere eleggibili, ed il re ha decretato che unicamente le donne possono vendere biancheria intima da donna.

Alcune femministe musulmane stanno tentando di reinterpretare – loro magari direbbero di interpretare correttamente – il Corano in modo egualitario per i due generi. Per esempio, sottolineano che il Corano dice alle donne solo di vestirsi modestamente, non di essere coperte da capo a piedi, e neppure di coprirsi la testa. Tu pensi possibile un Islam femminista?
C’è già un Islam femminista, più che altro guidato da donne musulmane che vivono in Occidente. Però esse tendono a dimenticare che nessuna delle religioni monoteiste tratta uomini e donne allo stesso modo, e che c’è un limite a quello che gli studi accademici possono fare per cambiare questa realtà. Per esempio, le figlie ereditano metà di quel che ereditano i figli. Agli uomini è permesso sposare sino a quattro mogli. Due testimoni donne valgono un testimone uomo. Una società laica è una scommessa migliore, per le donne e anche per gli uomini.

Vedremo una primavera saudita?
Non ora. La maggioranza delle persone non sono ben consce di avere dei diritti umani. Non c’è stampa libera, non c’è una società civile, e nessuna ong o gruppo politico che possa organizzare un movimento. A molta gente è stato fatto il lavaggio del cervello, nel senso che credono che la nostra sia una società “speciale”: ed è perciò che noi possiamo avere leggi che non sono islamiche ma che vengono accettate, come l’impedire alle donne di guidare l’auto.
Tuttavia, grazie ad internet, le giovani donne e i giovani uomini hanno un luogo in cui esprimersi e sviluppare le loro individualità. Sono di mente più aperta degli anziani e ciò darà forma alla società saudita del futuro.

Il presidente Obama ha lodato le sollevazioni nel mondo arabo, ma gli Usa sono amici fidati del governo saudita, nonostante le sue flagranti violazioni dei diritti umani, la sua mancanza di democrazia eccetera. Che ne pensi?
Non mi sono mai aspettata che uno qualsiasi dei leader del mondo occidentale parlasse delle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita, e tutti loro hanno infatti risposto alle mie aspettative. L’Occidente ha bisogno del nostro petrolio, e noi “non abbiamo bisogno di niente” da loro. Ho imparato a convivere con quest’amara realtà tanto tempo fa.

Perché a paragone di altri luoghi c’è così poco attivismo fra le donne saudite? O ce n’è di più di quanto venga riportato?
La paura è la ragione principale. Inoltre, le donne sono trattate per tutte le loro vite come proprietà: questo ha effetto. E la religione è un’altra ragione. I sauditi sono molto devoti ed il governo è molto bravo nell’usare la religione come arma per mantenere le donne sottomesse. Tante lo accettano. Non sono felici, ma lo accettano.

Vincere i cuori


Se chiedete a Mary, Angela o Agnes cosa significa “sicurezza” vi risponderanno: giustizia, buon governo e accesso ai servizi. Come pensano di ottenerla? Innanzitutto insegnando agli uomini a smettere di farsi guerra. E’ per questo che, nel 1999, hanno fondato il gruppo “Donne per la pace di Kup”. Kup è un sotto-distretto che si trova nella provincia Simbu della Papua Nuova Guinea, ha una popolazione di circa 18.000 persone divise in 12 clan e dispersa in numerosi piccoli centri.

All’epoca, le fondatrici del gruppo avevano sperimentato un ventennio di insicurezza e violenza grazie ai conflitti tribali. La miseria in cui le comunità erano precipitate fra omicidi, sfollamenti, stupri, crescita del contagio da Hiv e della criminalità, era intollerabile. Il primo passo per uscirne, spiegano, era guadagnare sostegno nell’opinione pubblica, affinché la pressione esercitata sui capi tribali per porre fine agli scontri fosse efficace. Allo scopo organizzarono seminari e campagne su tutto il territorio nazionale, mettendo particolarmente in luce l’ammontare incredibile di violenze dirette contro le donne durante i conflitti; un risultato clamoroso fu che donne di tribù rivali, che non si parlavano da anni, sfilarono insieme in una marcia per la pace. “Questa chiamata alla pace mostrava ai leader combattenti una resistenza unita e compatta delle donne.” Creato l’ambiente favorevole, ovvero un momento di altissima attenzione in cui era difficile per i capi tribali evitare il dialogo, riuscirono ad incontrarli. “Ci siamo presentate con rispetto, in modo non aggressivo, osservando le norme culturali consuete. Anche se il nostro discorso è una sfida diretta alla supremazia maschile volevamo convincerli, non umiliarli. Noi lo chiamiamo “winim bel”, vincere i cuori. In questo contesto la nostra strategia per il cambiamento non può che essere a lungo termine. Ma per quanto riguarda i fucili, quelli li abbiamo fermati subito.”

Perché ovviamente non tutte le fazioni in gioco hanno compreso o accettato immediatamente il messaggio. Così, le attiviste sono passate all’azione diretta: si sono accampate in mezzo ai campi di battaglia con tende e fornelli… ed è risultato difficile continuare a sparare, è stato necessario parlare. A questo punto, le “Donne per la pace di Kup” si sono offerte come mediatrici fra i vari gruppi in lotta. Ci sono voluti otto anni di lavoro, di promozione della coesione sociale, di sostegno alle vittime dei conflitti, di auto-organizzazione nei villaggi, ma nel 2007 il distretto è andato al voto senza violenza settaria a far da contorno alle elezioni. Precedentemente, dalle devastazioni agli scontri armati, passando per l’enorme pressione esercitata sulle donne affinché non andassero a votare, Kup aveva visto e sofferto di tutto. Nel 2007 invece Mary Kini e le altre, seguite ormai da un gran numero di aderenti e simpatizzanti, tennero dappertutto due settimane di corsi preparatori: cos’è il sistema elettorale, lo scopo delle elezioni ed il loro svolgersi, il diritto di votare, il diritto di essere eletti, tutto questo lo hanno spiegato diversificando i materiali a seconda del grado di alfabetizzazione dei concittadini a cui si rivolgevano. Inoltre, lanciarono la campagna “Elezioni libere dalla violenza”, in cui chiesero ai candidati di impegnarsi pubblicamente in tal senso, e monitorarono i seggi, per sventare i possibili brogli e permettere alle donne di partecipare con più tranquillità. “Un sogno divenuto realtà.”, dice Mary con orgoglio, “Era la prima volta che le cose andavano in modo pacifico, in tutta la nostra storia.” Al termine di quelle storiche elezioni, molte persone hanno chiesto alle “Donne per la pace di Kup” di presentare delle candidate alle prossime. Nel 2012, potremmo avere le prime donne elette nel distretto.

Nel frattempo, non pochi cuori sono stati vinti. Alle assemblee per promuovere la pace fra i clan, raccontano le attiviste “era la prima volta che molti uomini ascoltavano le storie dolorose delle donne. Durante una di esse, uno dei capi tribali ci disse: Prendete la guida, noi staremo dietro di voi, e vi sosterremo e ci muoveremo in avanti con voi. Noi non riusciamo a negoziare. Gli uomini combattono, litigano. Il nostro modo di discutere è violento.”
Liberare le donne educando gli uomini nel processo è il loro motto: sembra che ci stiano riuscendo.

Maria G. Di Rienzo

Cento mattoni

Claudia Tapias non si è mai permessa di avere sogni, per il passato. Cresciuta con sei fratelli, maggiori e minori, unica femmina, le è stato insegnato a fare qualunque cosa per loro senza chiedere nulla in cambio. Claudia si è sposata giovane, ha tre figli di 26, 25 e 22 anni, ed è una delle tante donne rese vedove dalla violenza imperante in Colombia, dove la maggior parte degli omicidi restano impuniti e troppe famiglie attendono ancora una risposta al loro dolore.
Questa donna minuscola di 47 anni, dalla voce che ha il ritmo quieto di una pioggia leggera, non sembra proprio la persona più importante di Santa Elena, ne’ si definirebbe mai tale: eppure, per i suoi concittadini, in molti modi lo è. Santa Elena è l’insediamento agricolo dove Claudia è nata ed ha vissuto per tutta la vita e fa parte come municipalità della ben più famosa Medellìn. La gente di Santa Elena coltiva granoturco, patate, lattuga, una gran varietà di frutta fra cui fragole e more, ed una varietà ancor più grande di fiori. La maggior parte delle famiglie della zona sono infatti “silleteros”, coltivatori tradizionali di fiori, e Claudia li considera la parte più vulnerabile della popolazione: per loro cerca incessantemente nuove opportunità e sviluppa progetti che coinvolgono la comunità intera.
Come presidente di una delle 16 circoscrizioni della municipalità, Claudia Tapias lavora sette giorni la settimana senza essere pagata. Il suo scopo principale, ogni giorno, è trovare le risorse per far partire e crescere i progetti che mirano a migliorare le vite dei contadini; il suo orizzonte, la cosa che considera più importante per la sua gente, è ottenere un mercato equo, un mercato giusto, un mercato a misura di esseri umani.
Claudia riuscì a suo tempo a finire le scuole superiori, ma non ebbe mai la possibilità di proseguire gli studi in uno dei due corsi universitari che la interessavano: scienze politiche e medicina forense. A prima vista può sembrare che le due carriere non abbiano molto in comune, dice Claudia, ma in realtà sono connesse: “Quando guardo le persone negli occhi, e vedo quanto disperatamente hanno bisogno di aiuto, so che se quell’aiuto non arriverà potranno essere uccise, o morire proprio nel tentativo di sopravvivere. E se questo succede, io ho bisogno di sapere perché. Cos’è accaduto? Chi non ha fatto il proprio lavoro? E perché non lo ha fatto, quando la vita ha un così grande valore?”
Claudia cominciò a portare le sue proposte ai funzionari governativi sin da quando era molto giovane; sapeva di non avere nessun addestramento specifico o ufficiale, ma il suo cuore e la sua saggezza le indicavano una strada verso una nuova vita, una vita di giustizia per i più poveri e gli abbandonati, una strada fatta di opportunità, eguaglianza, istruzione, salute, impiego e cibo, ma ancor di più di dignità e di rispetto per se stessi e gli altri. Claudia ha ridato alle donne e agli uomini di Santa Elena l’orgoglio di essere quel che sono. I progetti che ha portato a termine o in cui è attualmente coinvolta sono così tanti che è impossibile menzionarli tutti. Lo scorso anno erano le case ecologiche per i coltivatori, quest’anno ha ottenuto acqua potabile per 10.000 persone. Ci sono bambini che vanno a scuola e anziani che vengono curati solo grazie all’impegno di Claudia Tapias.
I sogni della gente di vivere una vita degna, pacifica, significativa, sono le sue priorità. Ma per se stessa Claudia non si aspetta granché, come al solito. Abita nella casa di suo padre con i tre figli, il suo compagno, un fratello che era diventato mendicante e che lei ha soccorso dalla strada, e la nipotina Sofia che è per lei “il centro della vita”.
Tuttavia, anche questa donna straordinaria che non sa di esserlo ha un sogno. Ne tiene parte nelle piccole mani, mentre parla, e infine lo mostra. Un mattone. Claudia Tapias sogna una casa propria. Per ora ha messo da parte nell’abitazione di suo padre cento mattoni, la toilette, un lavandino e dieci grosse lastre di vetro. Un giorno, spiega, spera di vivere nella casa che sogna con l’intera famiglia, e di preparare per tutti i suoi parenti le vivande deliziose che sa cucinare con tanto amore. E invero l’amore è l’ingrediente principale della sua esistenza. Maria G. Di Rienzo

Le “sante” della Somalia

La Somalia è considerata una delle nazioni più “problematiche” del mondo. Da vent’anni non ha un governo centrale effettivo (quello eletto nel 2009 controlla a malapena parte della capitale con il sostegno delle Nazioni Unite), i combattimenti fra clan rivali hanno generato in questo lasso di tempo un milione di morti ed una devastante crisi relativa ai rifugiati interni (un milione e duecentomila persone senza più casa, lavoro e luogo a cui tornare), la fame e la mancanza di servizi sanitari fanno il resto. Al momento, un terzo della popolazione somala dipende per sopravvivere dal cibo fornito dagli aiuti umanitari e quel che resta dell’economia del paese è retto dalle rimesse dei migranti. La Somalia è diventata praticamente il campo di battaglia di opposte fazioni “insorgenti”, molte delle quali intendono imporre all’intero paese la loro specifica e particolare visione della fede islamica.
La dottoressa Hawa Abdi Dhiblawe, oggi 63enne, tornò in Somalia dall’Ucraina, dove si era laureata in ginecologia e lavorava, nel 1983: aveva deciso che avrebbe fatto quanto poteva per rispondere ai bisogni della sua gente. Il suo credo era composto di una sola parola, “pace”; i suoi motivatori erano “dignità e speranza” per ogni essere umano. Hawa si rimboccò le maniche ed aprì una clinica composta di una sola stanza ad Afgoye, alla periferia di Mogadiscio. Da allora, la stanzetta è cresciuta sino a trasformarsi in un ospedale da 400 posti letto, circondato da 1.300 acri di terra coltivabile che sono diventati la casa di 90.000 rifugiati. Oggi nell’ospedale lavorano anche le due figlie di Hawa, parimenti laureate in medicina: Amina Mohamed Abdi e Deqa Mohamed Abdi.
Dell’intenso e quieto lavoro di queste donne, che la gente comune chiama “le Sante di Somalia”, la comunità internazionale non ha saputo nulla sino all’anno scorso. L’incidente che le ha portate, per così dire, alla ribalta accadde nel maggio del 2010, quando il gruppo armato “Hizbul Islam” decise che aiutare la gente a stare meglio non era abbastanza “islamico” e che queste tizie pacifiste erano un po’ troppo popolari. Inoltre, si trattava pur sempre di tre esseri inferiori, e cioè di femmine. Così, 750 uomini armati presero d’assedio la clinica per permettere agli altri di saccheggiarla senza disturbo. Le infrastrutture furono distrutte assieme ai macchinari per l’anestesia ed agli schedari.
Nel bel mezzo della tempesta, la dottoressa Hawa Abdi Dhiblawe andò a confrontarsi con il comandante dei miliziani, chiedendogli per quale motivo si stesse comportando in tal modo. Il comandante rispose puntandole un fucile alla testa. Hawa scrollò le spalle: “Se vuoi uccidermi, uccidimi. – gli disse – Non è un problema. Un giorno o l’altro dovrò comunque morire.” I miliziani la trassero in arresto e si accamparono nell’ospedale, ma non avevano fatto bene i conti: Hawa aveva mostrato il potere della solidarietà per lunghi anni, e a troppe persone. Le sue ex pazienti, in particolare, donne in difficoltà che lei aveva accolto a braccia aperte senza chiedere nulla, non intendevano tacere.
Così, man mano che la notizia si diffondeva, prima qualche dozzina di donne e poi centinaia circondarono a loro volta la struttura, chiedendo il rilascio della dottoressa e che l’ospedale riprendesse a funzionare. L’azione rimbalzò sui media e a livello internazionale. Poiché quello che arrivava ad “Hizbul Islam” erano solo proteste e comunicati che esprimevano sdegno e condanna, e poiché per quanto le si minacciasse quelle donne attorno alla clinica non solo non se ne andavano, ma crescevano costantemente di numero, e sembravano non aver paura di nulla, dopo sette giorni il leader del gruppo, lo “sceicco” Hassan Dahir Aweys ordinò la liberazione della dottoressa.
Hawa Abdi Dhiblawe si rimboccò le maniche un’altra volta, raccolse i pezzi e riprese a fare il suo lavoro. Non si tratta solo di curare i corpi, lei e le sue figlie lo sanno bene. Si tratta di istruire i bambini, di dare un tetto a chi non ce l’ha, di insegnare alle persone a lavorare insieme per il bene comune. E’ vero quanto Hawa disse l’anno scorso: un giorno lei ci lascerà com’è nell’ordine naturale delle cose. Ma credo che il suo esempio e i frutti del suo impegno resteranno con noi molto, molto più a lungo.

Maria G. Di Rienzo

Un metro quadrato alla volta

Quando si dice “ricucire” una nazione. O se volete, persino “conquistarla”. Rimetterla insieme, renderla di nuovo vivibile dopo trent’anni di guerra civile e 40.000 civili uccisi in essa. Lo stanno facendo le donne in Sri Lanka, un metro quadrato alla volta. Sono le squadre delle sminatrici.

La guerra nel paese è cessata da due anni, ma ambo le parti in causa hanno disseminato ovunque mine antiuomo e il numero delle stesse e i siti ove esse si trovano non sono dati certi: le stime parlano di centinaia di migliaia di ordigni sepolti. Le fabbriche nella giungla delle Tigri del Tamil sfornavano migliaia di bombe ogni settimana: i campi minati creati dal loro esercito hanno coperto praticamente l’intera isola, nel tentativo di creare una barriera che separasse il nord dominato dai guerriglieri dal sud sotto il controllo del governo. Ma nelle settimane finali del conflitto, mentre fuggivano davanti all’avanzata dell’esercito dello Sri Lanka, le Tigri hanno “minato a caso”, senza uno schema o uno scopo preciso. Hanno piazzato bombe attorno agli alberi, attorno alle case e ai pozzi, sui sentieri: ovunque soldati e persone comuni avrebbero potuto posare i piedi camminando.

Ora, in un dopoguerra quasi senza uomini, tanti ne sono morti e scomparsi, le donne sono le sole sostenitrici economiche delle loro famiglie. Fanno i lavori che vengono loro offerti: e uno è quello di ripulire le ferite del loro paese, una mina alla volta.

Yogalingam Rubaganthy, 29enne, sminatrice sul campo per un anno, sta ora addestrando una squadra di sole donne: “E’ un lavoro difficile. Adesso il clima è caldo e secco ed è difficile stare tutto il giorno all’aperto e restare concentrate. Ma le donne possono farlo come chiunque altro, hanno le capacità per farlo.” Yogalingam ha perso il padre, una sorella e due fratelli quando la sua casa a Kilinochchi è stata bombardata. Le è rimasto un fratello minore, che ora è tornato a scuola. “E’ la ragione principale per cui siamo tutte qui. Siamo responsabili per le nostre famiglie. Io voglio aver cura della mia, ma il mio lavoro è anche di beneficio al paese. Quando fuggivo dai combattimenti ho passato mesi in un campo di internamento per rifugiati di guerra. I campi non sono bei posti per viverci, e ci sono dentro ancora troppe persone: hanno bisogno che le loro terre siano liberate dalle mine per poter ritornare, per poter ritornare a vivere.”

Anche Egambaram Renathani (al centro nella foto) la pensa così. I suoi due fratelli e sua sorella sono stati uccisi dalle mine. Lei è tutta la sua famiglia, ora: “Mi sono messa d’impegno a imparare. E’ duro, ma è importante per il mio paese. Sono orgogliosa di fare questo lavoro.”

A volte, guardando da lontano queste giovani donne in tutto il mondo, l’unica cosa che riesco a pensare e dire è “grazie”. Mi piacerebbe abbracciarle, cucinare per loro, ridere e piangere con loro, ma non posso. Allora le racconto. 
Maria G. Di Rienzo

Le mani alte

Estratto dall’articolo “An Encounter with Nasrin Sotoudeh: Hands of a Witness, Forever Unbowed”, di Nahid Jafari e Roja Bandari, iraniane, attiviste della campagna “Change for equality”, 30 maggio 2011, trad. Maria G. Di Rienzo





Ci siamo tutte. La folla di avvocati e di attiviste per i diritti umani delle donne sta crescendo di momento in momento. I nostri occhi seguono il marito di Nasrin, Reza Khandan: “La stanno portando qui un po’ prima delle 11 come era stabilito.”, dice. I nostri cuori battono come ali, dal desiderio di vederla.

Dapprima solo in poche riusciamo ad entrare nella stanza con il sig. Khandan. Una poliziotta e alcuni avvocati sono già nella stanza. Stiamo attente a non creare la minima tensione, perché così almeno potremo vedere Nasrin, ed entriamo ad una ad una.

Abbracciamo Nasrin, le lacrime cominciano a cadere. Non sappiamo se stiamo piangendo dalla gioia di rivederla, dal dolore di non averla avuta con noi per 9 mesi, o per la determinazione travolgente che sta su quel viso a noi familiare, una determinazione da cui abbiamo imparato così tanto. Ma il tempo vola. Le guardie ci obbligano a lasciare la stanza.
Dall’atrio, vediamo Nasrin attraverso le vetrate. La sua gioia è evidente, i suoi colleghi avvocati la attorniano calorosi, suo marito ha gli occhi pieni di felicità, e tutto questo fa felici anche noi.

Il tribunale ha chiesto che a Nasrin Sotoudeh sia revocata l’autorizzazione a svolgere il suo lavoro di avvocata, ma l’Associazione degli avvocati iraniani ha presentato ricorso: oggi è il primo giorno del processo che ne è conseguito.

Aspettiamo i risultati, ma il tribunale non si pronuncia. “La sessione si terrà in un altro momento”. A mezzogiorno e mezzo, due soldati e una donna guardia carceraria portano fuori Nasrin. Nasrin tiene alte le mani strette dalle manette. La guardia tenta di abbassargliele, ma non ci riesce. Di colpo suo marito le prende la testa fra le mani e la riempie di baci. Le guardie tentano invano di separarli. Siamo tutte colme di affetto e ammirazione. Stiamo guardando la resistenza che nasce dell’amore? Sono i baci che Reza ha promesso ai suoi figli Mehrave e Nima di dare da parte loro alla loro madre?

Oggi voliamo di nuovo. Siamo fiere di Nasrin e siamo fiere di averla con noi, con quelle mani alte, quelle mani che non si sono mai piegate.

Ndt. Nasrin Sotoudeh, avvocata, è stata arrestata dalle autorità iraniane il 4 settembre 2010 per la sua attività di difensora dei diritti umani, in particolar modo i diritti di donne e bambini. E’ stata condannata per tale attività ad 11 anni di carcere ed al bando ventennale dalla sua professione: di quest’ultimo si tratta nel presente articolo.

Ogni atto di violenza è una scelta

(Fonte: www.awid.org – autrice non menzionata, 26.5.2011, trad. Maria G. Di Rienzo)


Durante un incontro per raccogliere idee sulla Campagna globale “16 giorni di attivismo per mettere fine alla violenza contro le donne”, una delle sue fondatrici Charlotte Bunch ha reiterato un punto base femminista (ora sottinteso nelle leggi e nelle politiche basate sui diritti umani che concernono la violenza sessuale), e cioè il fatto che “lo stupro riguarda il potere, non il sesso”. Riconoscendo come vera questa premessa, che lettura diamo delle violenze sessuali che si danno durante i conflitti e cosa dobbiamo fare per prevenirle?

Durante gli ultimi tre giorni, le partecipanti alla conferenza promossa da “Nobel Women’s Initiative” si sono interrogate sulla questione delle violenze sessuali in guerra e nei conflitti a sfondo politico, discutendo delle risposte date sino ad ora e generando idee per azioni ulteriori. Durante il dibattito sono emerse tre “arene” in cui la violenza è perpetrata.

La prima è quella maggiormente visibile e discussa della violenza sessuale perpetrata da eserciti formali e forze ribelli contro donne e ragazze, e qualche volta contro uomini e ragazzi, nel contesto del conflitto e/o come parte di un’aperta tattica di guerra.

La seconda concerne violenze sessuali e sfruttamento ed abuso sessuale commessi da forze armate ed agenzie umanitarie dispiegate per proteggere e sostenere le popolazioni civili in contesti di conflitto. Su tale questione, l’emergere delle prove che attestano il coinvolgimento di “peacekeepers” delle Nazioni Unite e di membri di staff umanitari nell’abuso di donne e bambine nell’Africa dell’ovest, causò una significativa controversia nei primi anni dopo il 2000.

La terza si concentra sulle violenze sessuali e di genere che si danno all’interno dei settori di sicurezza e delle stesse forze armate.

Sebbene i violatori vestano in modo differente – l’uniforme impeccabile del soldato addestrato, la t-shirt del volontario umanitario o gli abiti di seconda mano del ribelle – la realtà è che praticamente la totalità dei violatori sono uomini.

A livello di vulgata, gli stupratori sono spesso descritti come uomini incapaci di controllare i loro “naturali” impulsi sessuali. Al peggio, quest’idea getta il biasimo sulla persona che è stata violata per aver incitato o creato un’opportunità a cui l’uomo non ha potuto “resistere”. Ciò riguarda molti eserciti, dove il “conquista, saccheggia e stupra” è ancora latente. Sebbene la violenza sessuale sia certamente usata come orchestrata arma di guerra, è importante ricordare che atti individuali non sono sempre guidati da un’agenda tattica o hanno un impatto strategico. Per cui la violenza sessuale può non essere semplicemente un altro attrezzo nell’arsenale a disposizione del soldato o del ribelle.

La Premio Nobel Jodi Williams, nota per aver guidato con successo la campagna contro le mine anti-uomo, ma ella stessa sopravvissuta alla violenza sessuale agita contro di lei da un membro di una squadrone della morte in Salvador, ha chiaro che la nozione dello stupro come di un inevitabile aspetto della guerra è falsa: “Ogni atto di violenza è una scelta.”

Quindi, perché gli uomini scelgono di violare le donne? Jocelyn Kelly, che ha passato un bel po’ di tempo “sul campo”, intervistando i ribelli Mai Mai congolesi responsabili di alcuni degli stupri di massa più infami nel loro paese, sostiene che vi è un intero spettro di fattori in gioco, dai training disumanizzanti dei campi dei ribelli al desiderio vendicativo di agire la violenza perché la si è subita. Per quanto riguarda gli eserciti Anja Ebnoethe, Vicedirettrice del Centro per il controllo democratico delle forze armate di Ginevra, sottolinea che l’indisciplina e la corruzione sono entrambi fattori chiave che abilitano la violenza sessuale e la relativa impunità che essa gode negli eserciti nazionali e nelle forze di peacekeeping.

Tuttavia, il passaggio da un senso di inadeguatezza personale, dalla rabbia o dall’indisciplina all’agire la violenza sessuale in forme che vanno dallo stupro di gruppo all’incesto forzato, dalla schiavitù sessuale allo stupro con bottiglie e fucili, richiede ulteriori analisi.

E’ sufficiente considerare la violenza sessuale solo un’altra forma di violenza interpersonale? O le sue basi di genere ci dicono qualcosa anche sulle cause che sono sottese alla violenza?

L’attivista birmana per la democrazia Aung San Suu Kyi dice che “la violenza comincia nella mente”, come aspetto profondamente pervasivo della cultura patriarcale che si manifesta nel senso di superiorità degli uomini e nel loro indiscriminato accesso ai corpi delle donne, e nel senso di impotenza e subordinazione che le donne provano.

Questo contribuisce a spiegare il progetto di creare e sostenere alti livelli di decisioni politiche su cui lavorare per fermare la violenza contro le donne, e di non occuparsi solo del provvedere risorse. Per fare un esempio, la “Rete degli uomini leader impegnati a metter fine alla violenza contro le donne”, creata dal Segretario generale delle Nazioni Unite, ha un numero ancora relativamente basso di firmatari.

Sebbene le politiche, le riforme legali ed il provvedere servizi siano tutti aspetti necessari ed essenziali del confrontarsi con la violenza sessuale, lo scopo di mettere fine ad essa richiede un livello più profondo di trasformazione, ciò che l’attivista guatemalteca Patricia Ardon chiama “un cambiamento nell’immaginario sociale”.

Noi sappiamo che mentre alcuni uomini e ragazzi stuprano, altri non lo fanno e non lo farebbero mai. In effetti, vi sono uomini e ragazzi che rigettano attivamente la nozione della violenza sessuale come legittima espressione della loro mascolinità, ed agiscono per difendere questo principio nelle loro case, nelle strade e persino, come Cynthia Cockburn ha scritto su OpenDemocracy, nel contesto della guerra.

Affermare una visione del mondo e delle scelte individuali che rispettano anziché violare i corpi delle donne e delle bambine è un passo critico per questo cambiamento, e si situa al cuore della prevenzione della violenza sessuale. A Suchitoto in Salvador, le attiviste e gli attivisti si sono presi il compito di operare questa trasformazione profonda e stanno sfidando le attitudini sociali con una campagna basate sulle famiglie, con persone che incollano sulle loro porte di casa una decalcomania che recita: “In questa casa vogliamo una vita libera dalla violenza contro le donne”.

Questo è solo un esempio nella serie di campagne comunitarie in atto che contrastano l’accettazione della violenza, campagne che gettano una luce che interroga coloro che non prendono posizione contro le violazioni e preferiscono dirigere lo stigma su coloro che sono violate.

Ragazze consapevoli, Pakistan





La città pakistana di Peshawar, sul confine con l’Afghanistan, è attualmente nota per due dati di cui non c’è da vantarsi: la radicalizzazione pseudo-religiosa della sua gioventù maschile, e la fiorente industria artigiana di armi leggere, con relativo commercio. La violenza è la moneta corrente di quest’area nel nordovest del paese.

Naturalmente anche qui c’è chi dice “no”, ma dev’esserci voluto un coraggio straordinario per cominciare a farlo a 16 anni, ed essendo una femmina. Gulalai Ismail, oggi 24enne, da otto anni fa funzionare due programmi di seminari e incontri per contrastare la violenza (uno sul genere e l’altro sulla costruzione di pace) da casa sua, a Peshawar. Invitata a Londra, nel maggio di quest’anno, ha parlato ai giovanissimi del suo lavoro:

“Ho messo in piedi “Ragazze consapevoli” quando avevo 16 anni perché tutto attorno a me vedevo le femmine trattate in modo diverso dai maschi. Mia cugina aveva 15 anni quando le fu arrangiato un matrimonio con un uomo che aveva il doppio della sua età. Non poté terminare gli studi, mentre i suoi fratelli continuavano ad andare a scuola. Ciò era considerato normale. Le ragazze hanno interiorizzato tutta questa discriminazione: una donna che soffre la violenza ma non dice nulla dev’essere ammirata e presa a modello, una brava donna si sottomette a suo marito o suo padre. “Ragazze consapevoli” suscita la coscienza dell’eguaglianza di status. Nei seminari insegniamo che le donne hanno diritti umani, e le tecniche per prendere l’iniziativa e negoziare all’interno delle famiglie per avere un’istruzione ed il controllo sulle proprie vite. La posizione delle donne nella società si è deteriorata con il tempo. Peshawar era una città molto progressista, ma dopo la “talibanizzazione” la vita per le ragazze è diventata più dura. Mia sorella minore vive peggio di come ho vissuto io alla sua età. Persino andare al mercato è difficile, a causa delle molestie sessuali.”

Se qualcuno aveva ancora dubbi sull’uso politico della violenza sessuale, in tutte le sue forme, la storia di Gulalai Ismail dovrebbe dissolverli: il principale ostacolo all’organizzazione dei seminari di “Ragazze consapevoli” sono proprio le molestie. Ismail e il suo staff devono spendere un bel po’ di tempo a costruire, nelle comunità che visitano, la fiducia che le ragazze non subiranno violenze se partecipano agli incontri. Lavorare nelle zone rurali richiede molta pazienza, ma Ismail non è interessata all’opzione più semplice di lavorare solo in aree urbane.

Le discriminazioni di genere sono state il suo primo motivatore, ma molto presto la ragazza ha colto la connessione fra genere e pace: “Durante un seminario, una donna narrò di come suo figlio dodicenne fosse stato portato in Afghanistan dai militanti. Dieci mesi più tardi era morto. Questo ha fatto sì che io cominciassi a chiedermi come potevamo indurre queste giovanissime persone a non unirsi ai militanti.” Il risultato della riflessione di Ismail è stato il network “Semi di pace” che lo scorso anno ha fornito formazione a 25 giovani. Costoro, a loro volta, formeranno altre 20 persone che avranno il compito di passare l’insegnamento ad altre venti e così via. Ognuno di essi, stima Ismail, potrà raggiungere almeno 500 ragazzi tramite i seminari: “Identificano i giovani nelle loro comunità che potrebbero essere vulnerabili all’estremismo ed organizzano incontri per discutere cause e conseguenze del conflitto, e la storia della talibanizzazione. Parliamo di tolleranza e rispetto per chi ha un’altra fede. L’estremismo si infiltra in ogni aspetto della crescita dei bambini: persino i libri di scuola chiedono loro di essere pronti per la guerra santa, e dappertutto ci sono canzoni e film che glorificano la guerra, il martirio e la violenza. “Semi di pace” ha lo scopo di fornire un’altra prospettiva, quella dei diritti umani. La pace non è solo l’assenza di guerra, la pace è proprio tolleranza e rispetto, e le donne hanno un ruolo importante nell’educazione dei bimbi.”

Ismail sa bene che il suo lavoro sfida il dominio dei talebani e conosce i pericoli che questo comporta. E’ anche consapevole che vi sono istanze politiche coinvolte nella radicalizzazione della regione in cui vive, ma crede che il cambiamento dal basso sia una parte cruciale della costruzione di pace. “Per risolvere un conflitto”, dice Ismail, “hai bisogno sia delle negoziazioni politiche ad alto livello, sia della partecipazione della gente comune.”

Ruari Nolan di “Peace Direct”, che ha portato la giovane donna in Gran Bretagna, è d’accordo: “Le trattative politiche sono i mattoni, il coinvolgimento della comunità è il cemento che li tiene insieme. L’esperienza dell’Irlanda nel Nord ce lo ha insegnato: decenni di costruzione di pace dal basso sono stati la premessa fondamentale al processo politico che è culminato con l’accordo.”

Alle conferenze internazionali, Gulalai Ismail ha incontrato “semi di pace” provenienti dall’Uganda, dallo Sri Lanka, e da molte altre parti del mondo. “Nonostante le forme dei conflitti siano diverse, vedo che stiamo facendo lo stesso lavoro. Questo mi riempie di speranza.”

Maria G. Di Rienzo – (Fonti: Awid, The Guardian)