Artiste di strada

Tratto da un articolo di Elayne Clift per Women’s Media Center, 26.7.2011. Traduzione di Maria G. Di Rienzo


I graffiti esistono da quando gli esseri umani cominciarono a dipingere le pareti delle caverne. Oggi condannati come vandalismo da alcuni, o scherniti come pratica infantile da altri, sono definiti dalla studiosa canadese Jane Gadsby come “una forma di comunicazione personale priva delle costrizioni sociali consuete”.

Fra i graffitisti in evidenza in tutto il mondo ci sono donne come l’olandese Mickey e Lady Pink, nata in Ecuador e cresciuta a New York. Costoro (assieme ad altre due artiste newyorchesi, Swoon e Claw) sono riconosciute a livello internazionale come le fondatrici di una sorellanza all’interno del movimento artistico dei writers, documentata anche dal libro del 2006 “Graffiti Women: Street Art from Five Continents” – “Donne graffitiste: arte di strada dai cinque continenti” di Nicholas Ganz. Nella prefazione, Nancy Macdonald scrive che un artista di strada maschio occupa “una sfera che gli garantisce una presenza e l’opportunità di essere riconosciuto. Questa sfera è molto più dura da occupare, per le donne.”

Forse è per questo che l’esplorazione di genere dei graffiti ha spesso condotto i ricercatori nei bagni pubblici, dove le donne si devono essere sentite più sicure e libere di scrivere e disegnare. I ricercatori hanno anche notato che i graffiti “da bagno” femminili sono più interattivi ed interpersonali di quelli maschili, osservando che mentre gli uomini tendono a scrivere delle loro prodezze sessuali, le donne maneggiano relazioni.

“Inizialmente lo scrivere graffiti era un gesto di attivismo, un segno di ribellione.”, dice Lady Pink, i cui lavori sono oggi esposti nei musei, “I graffiti mi hanno dato forza ed hanno costruito il mio carattere. Quando ho iniziato ero timida e schiva, ma ho scoperto di avere una voce, di avere qualcosa da dire.” Solo più tardi si accorse che stava creando arte femminista, denunciando ingiustizie e mostrando le donne come eroine e modelli positivi invece che come vittime.

L’artista olandese Mickey dice che i graffiti sono diventati “arte folk”. Definisce i suoi primi graffiti come “un modo ribelle di esprimere me stessa artisticamente, ed una forma di comunicazione con l’esterno. I graffiti hanno contribuito alla mia vita in tal modo da farmi diventare un libero essere umano con uno spirito libero. Mi hanno insegnato molte lezioni di vita e mi hanno aiutata nei momenti difficili.”

All’inizio, essere un’artista di strada di sesso femminile significava rischiare di essere ridicolizzate e aggredite violentemente sia dai graffitisti maschi sia dalla polizia. Lady Pink ricorda che “andare in giro per la metropolitana essendo donne era davvero pericoloso. Mi travestivo da ragazzo e tentavo di non farmi notare. La polizia minacciava e molestava le graffitiste. E c’era sessismo da parte dei ragazzi che non volevano credere che io stessi semplicemente facendo il mio lavoro. Ho dovuto dipingere in mezzo a diversi gruppi di writers per dar prova di me stessa. Come tutte le donne, ho dovuto faticare il doppio per avere un trattamento eguale.”

Lady Pink attualmente lavora con le scuole, dove insegna ed ispira i giovani artisti. Del suo lavoro con i bambini e i ragazzi dice: “E’ importante che i giovani artisti mettano in discussione lo status quo e pensino in modo non convenzionale. Dove sta scritto che l’arte appartiene alle gallerie e dev’essere vista in silenzio? Perché non sulle strade, dove chiunque può vederla?”

Mickey, che esegue murali su commissione, dice: “Mi piace creare cose che rendano felici chi le guarda. Per me, i pezzi colorati dei graffiti non sono mai vandalismo. Vandalismo è distruggere qualcosa di proposito solo perché hai l’impulso di farlo. I graffiti sono diversi. Dipingi la città affinché appaia migliore. Penso che i graffiti siano ormai diventati arte popolare.”

Poesia contro il golpe

Honduras: “Neither Striking Down The State, Nor Striking Down Women”, di Gabriela De Cicco per AWID, 31 luglio 2011. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. www.awid.org

Honduras, nell’America Centrale, ha una popolazione che conta un po’ più di otto milioni di persone. Nel 2009, una contesa politica sui piani per riscrivere la Costituzione honduregna risultò nell’allontanamento del Presidente Manuel Zelaya, tramite colpo di stato da parte delle forze dominanti del paese: capi militari, politici conservatori dei partiti Liberale e Nazionale, proprietari dei media principali, proprietari terrieri e uomini d’affari dell’oligarchica alta classe.  Roberto Micheletti Bain fu insediato come Presidente ad interim e, nel novembre dello stesso anno, si tennero elezioni nazionali. Il 27 gennaio 2010 il neo eletto Presidente Porfirio Lobo Sosa prese il suo posto. Ma ciò non ha messo fine alla crisi che attraversa il paese e la violenza e la repressione continuano.

AWID ha parlato con Jessica Sánchez, un’attivista di “Feminists in Resistance” (FeR) del movimento di resistenza delle donne e dello stato attuale dei diritti umani delle donne in Honduras.

AWID: Cos’è il Movimento di resistenza popolare (MRP)?

Jessica Sánchez (JS): E’ il movimento sociale che si è creato a seguito del colpo di stato, ed è composto da donne, lavoratori, organizzazioni rurali ed indigene, associazioni commerciali e sindacati, ed il movimento LGBTI (lesbico, gay, bisessuale,
transgender e intersessuale). E’ venuto alla luce per rendere visibili le richieste di persone che per vent’anni hanno sopportato colpi di stato militari, violenza, povertà ed esclusione grazie alle classi d’élite del paese. Gli ufficiali dell’esercito ed i leader responsabili del colpo di stato hanno sottostimato la reazione popolare. Non si erano aspettati che la gente sarebbe scesa in strada per “resistere” tramite manifestazioni pacifiche, un giorno dopo l’altro, in città diverse in tutto il paese.

AWID: La repressione è aumentata a causa della continua resistenza? Quali gruppi sono stati bersagli per la repressione?

JS: Sì, di fronte alla disobbedienza civile, le autorità “de facto” hanno emanato un decreto che permette l’uso della forza alla polizia e all’esercito e ciò è cresciuto sempre di più mano a mano che sempre più persone si univano alla resistenza. I metodi nell’uso della forza si sono pure intensificati negli ultimi mesi, e includono arresti, diverse forme di tortura (pestaggi, ossa spezzate di proposito), stupri, minacce e molestie, il tutto diretto contro i leader del movimento sociale, in particolar modo giovani e donne.

Gli insegnanti, ad esempio, stavano protestando perché il loro Statuto è stato rigettato e non implementato, e quando sono scesi in strada con i loro sindacati sono stati violentemente repressi con gas tossici e arresti. Il governo ha inoltre sospeso più di 300 insegnanti, come misura punita, e costoro stanno ancora lottando per essere reintegrati nel posto di lavoro.

Il movimento contadino di Aguán, nel nord del paese, è un altro gruppo che subisce ancora violenza. Trenta omicidi di attivisti che lottavano per difendere le terre loro confiscate sono stati documentati negli ultimi 15 mesi. La popolazione dell’isola  Zacate Grande si trova in circostanze simili, è minacciata di evacuazione, violenza e persino morte perché sta difendendo il proprio territorio.

Anche il personale dei media ha dovuto portare il peso della violenza: 12 giornalisti sono stati assassinati durante il periodo dell’amministrazione Porfirio Lobo. Sino ad ora lo stato non ha riconosciuto le violazioni dei diritti umani che sono occorse sin
dall’inizio del colpo di stato, il 28 giugno 2009. E’ perciò che i movimenti sociali del paese, incluso il movimento femminista, si stanno opponendo con forza alla reintroduzione di Honduras nell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS) ed hanno protestato in occasione del recente incontro in Salvador.

AWID: E’ vero che la violenza contro le donne è aumentata di pari passo con la repressione?

JS: Più di 400 atti di violenza di genere sono stati documentati, fra il 2009 ed il 2010, dal “Comitato delle famiglie degli arrestati-scomparsi” e dalla coalizione “Feminists in
resistance”. Il rapporto, sottoposto alla Commissione Inter-Americana per i Diritti Umani, descrive questi atti: torture, pestaggi, abusi sessuali, arresti, minacce di stupro e molestie, diretti a membri e leader donne del Movimento di resistenza popolare.
La repressione nei barrios (quartieri ove vivono vivono proletari e classe media), attuata tramite i raid polizieschi, ha costretto le donne a fuggire dalle proprie case per
proteggere se stesse e le proprie famiglie.

AWID: In che modo sono stati toccati i diritti delle donne dopo il colpo di stato?

JS: Le istituzioni create per lo sviluppo e l’amministrazione della giustizia, dirette alle donne, sono state indebolite. Ciò è allarmante, perché in questo clima di impunità i femminicidi  sono aumentati di più del 60%, secondo i dati ufficiali: siamo passati da 252 omicidi di donne nel 2008 ai 407 del 2009. Nel 2010 il trend è continuato, e ai primi di marzo del 2011 già 55 omicidi classificabili come femminicidi  sono stati denunciati. Dal punto di vista delle politiche pubbliche c’è stato un sensibile passo indietro quando è scattata la proibizione per la vendita e l’uso della contraccezione d’emergenza. Il processo consultivo che doveva portare al secondo Piano per l’eguaglianza e l’equità di genere è stato fermato.

AWID: Perché, e in che modi, le femministe ed altri movimenti sociali stanno resistendo al governo “de facto”?

JS: Come femministe, continuiamo a resistere perché crediamo nella democrazia genuina che comprende l’equità, e nel riconoscimento dei nostri diritti quali esseri umani e costruttrici di cittadinanza, e dobbiamo lottare per questo. Stiamo costruendo un movimento sociale anti-patriarcale che opera al di fuori della logica militare e neoliberista; un movimento per il dialogo e per il cambiamento, in cui le donne hanno rappresentanza.

Oltre a Fer, ci sono femministe nei diversi movimenti sociali (rurale, indigeno, sindacale) e tutte noi vogliamo ricostruire e ricreare un nuovo Honduras. Almeno, questi sono i nostri sogni e le nostre aspirazioni. Ad esempio, resistiamo attraverso l’arte: “Contra el Golpe, contra todos los golpes, poesía” (Contro il golpe, contro tutti i golpe, poesia) è un’attività che hanno iniziato Francesca Gargallo e Karina Ochoa. Cariche di libri, cominciarono ad andare a leggere per gruppi di lavoratrici delle maquilas (fabbriche tessili) e per le contadine nel 2009, quando la repressione era ferocissima. Attività simili sono state organizzate a El Salvador con poetesse honduregne e salvadoregne, all’interno della protesta contro il reinsediamento di Honduras nell’OAS.

Stiamo esponendo pubblicamente la non volontà dello stato di occuparsi delle flagranti violazioni dei diritti umani e dei diritti delle donne. Non siamo d’accordo con quanto Porfirio Lobo ha dichiarato di recente, e cioè che “Dobbiamo perdonarci e ricominciare da zero”, perché la vittima ed il perpetratore, il torturatore e la donna che è stata torturata non possono essere equiparati. Chiediamo che la polizia e l’esercito, così come coloro che sono responsabili dell’esecuzione del colpo di stato, ammettano le violazioni dei diritti umani e le loro responsabilità.

AWID: Che tipo di conseguenze ha questa resistenza?

JS: Si sono manifestate, a livello personale e politico, per tutte le donne che fanno parte del movimento di resistenza: da una parte c’è la violenza di cui molte di noi hanno fatto esperienza, assieme a parenti, amici e figli; dall’altra c’è la persecuzione politica che molte compagne subiscono. Attiviste femministe sono sotto sorveglianza da parte delle polizia ed alcune hanno dovuto lasciare il paese per le minacce alla loro integrità fisica ed alla loro vita, e sono ancora in esilio.

Abbiamo lavorato incessantemente, e stiamo vivendo in una sorta di “modulo d’emergenza”, denunciando, inviando informazioni ai media, provvedendo sostegno ovunque con tale intensità che siamo davvero esauste. Salute emotiva e fisica ne risentono. Avremmo bisogno di spazi di guarigione, ma ciò non può accadere mentre siamo alle prese con situazioni d’emergenza per i diritti umani.

Gli aiuti internazionali sono stati limitati, per le femministe e per i movimenti e le organizzazioni di donne, dal colpo di stato in poi. E’ difficile conciliare la nostra agenda, che include la demilitarizzazione e la costruzione di democrazia, con quelle della cooperazione internazionale. Come possono lo stato e la società civile lavorare insieme senza riconoscere le violazioni che si sono date dopo il golpe? Stiamo ricreando il nostro movimento da un modello di resistenza che include le richieste femministe. Il nostro motto è: “Se le donne non ci sono, la Costituzione non va da nessuna parte”.

Dal lato positivo, la resistenza ha condotto ad approcci pro-attivi all’interno dei nostri stessi movimenti, come l’emergere di numerose organizzazioni femministe e  singole femministe che hanno trovato convergenza nella Fer, o il Forum delle Donne per la vita nel nord paese. Sono emersi anche movimenti specifici di giovani femministe.

Non è stato un processo facile, ma apprezziamo la solidarietà internazionale e regionale da parte delle compañeras che condividono la nostra lotta da differenti angoli della Terra. Abbiamo sentito di non essere sole nel nostro sogno, di essere parte di una lotta globale, un grande sogno collettivo che ci permette di crescere e continuare.

Recensioni di "Voci dalla Rete. Come le donne stanno cambiando il mondo"

VOCI DALLA RETE. COME LE DONNE STANNO CAMBIANDO IL MONDO
Un libro di Maria G. Di Rienzo (a cura di) Forum, 2011,15 euro

«Perché siamo così pronte ad adottare una pigra posizione di relativismo culturale? Il femminismo ha fallito? Forse non per voi, e non per me. Ma sapete una cosa? Non riguarda solo noi». Questa la conclusione dell’intervento di Virginia Haussegger a un dibattito del settembre 2010 dal titolo «Feminism has failed» e riportato da Maria Di  Rienzo in Voci dalla rete, una raccolta di testimonianze pubblicate su «Lunanuvola’s Blog» cinquantanove per la precisione, da lei raccolte, tradotte, adattate. Echi femminili che arrivano a noi da tutto il pianeta, dall’Afghanistan allo Zambia, dall’Iran agli Stati uniti, e che restituiscono un affresco mondiale delle discriminazioni e dei crimini contro le donne. Ma anziché essere una sequela di lamentazioni, il libro è piuttosto un inno corale alla vita e un’iniezione di ottimismo. «So che vinceremo» è il titolo dell’ultimo intervento, e vittoria, coraggio, libertà e dignità sono le parole ricorrenti di queste donne che raccontano e, con la narrazione delle proprie vite, cambiano la Storia. Esperienze personali uniche ma simili, che sollecitano la necessità e improcrastinabilità di una trasformazione radicale delle relazioni di potere tra i generi. Ma allo stesso tempo le storie di vita di queste protagoniste ci dicono che la realtà sta già cambiando e che dobbiamo fare spazio, nelle nostre teste, a questa trasformazione in atto. «Non c’è settore dell’umana esistenza in cui le donne non abbiano lavorato e non stiano lavorando affinchè le priorità siano pace, giustizia, uguaglianza e libertà. Per tutti.», dice la curatrice del volume. E proprio perché è dall’esperienza che nasce il sapere, le donne sono pronte a «cambiare il mondo».

Nadia Angelucci per “Le Monde Diplomatique” – Inserto de Il Manifesto


Se nominiamo Fiji, Vanuatu o le Isole Salomone, pensiamo alle vacanze, probabilmente immaginiamo donne sorridenti e serene. La realtà è un’altra: il 60 per cento delle nazioni del Pacifico non ha leggi contro la violenza domestica, perché “sarebbero contrarie ai costumi tradizionali”, come hanno affermato i capi (uomini) di Vanuatu. E il 73 per cento delle loro mogli pensa che sia diritto dei mariti picchiarle.

Il libro “Voci dalla rete” racconta di un universo femminile ignorato dalle riviste di viaggio e di norma invisibile ai viaggiatori stessi, lo racconta in presa diretta attraverso le testimonianze di donne raccolte sul web da Maria G. Di Rienzo e provenienti dall’intero continente, da paesi lacerati da guerre e da violenze come Afghanistan, Iran e Palestina e da quelli che sono destinazioni turistiche come Namibia, Kenya, Indonesia, Guatemala, Cina, Russia, India.

Sono testimonianze di vite, di sfide, di battaglie e di resistenze di migliaia di donne. Alcune voci sono positive e piene di speranza, altre drammatiche e sofferte, ma tutte coraggiose, tutte di donne stanche di sopportare e con la voglia di cambiare il loro mondo e il mondo intero.

Sono le voci delle contadine colombiane che piantano alberi nel deserto, delle messicane e guatemalteche che denunciano continui femminicidi, delle danzatrici dello Zambia che raccolgono i bisogni della loro gente dando vita a progetti di istruzione, delle madri di Tienanmen che chiedono giustizia. Sono le voci di donne confinate in cucina e nella cura della prole, donne a cui non è consentito lavorare fuori casa o guidare un’auto, donne private dei loro beni, spose e madri adolescenti vittime di matrimoni forzati con uomini anziani, donne analfabete, abusate, vendute, costrette alla prostituzione, vittime di “delitti d’onore”, bambine appena nate annegate in un secchio d’acqua sporca.

Violenze che non si possono giustificare in nome del relativismo culturale, della religione, dell’autodeterminazione o della tradizione. Chiamarle cultura è un’offesa alle vittime e alla nostra intelligenza. Sono tutti frammenti di un universo femminile drammaticamente simile, perché simile è il potere esercitato sul corpo, la sessualità, i pensieri, la libertà e la vita stessa delle donne da una diffusa cultura maschilista e misogina che le considera proprietà e non persone. Eppure queste donne sono ancora capaci di sognare e di regalare il loro sogno ad altre donne, sono capaci di rompere il silenzio per riprendere in mano le loro vite, pagando il prezzo del loro coraggio.

Pagina dopo pagina si prende dolorosa coscienza che nel mondo c’è una guerra silenziosa, trasversale e non dichiarata, una guerra contro le donne che si manifesta in forme diverse, talvolta subdole, altre volte evidenti, ma con un comun denominatore: la marginalità e la sottomissione di metà della razza umana.

Non possiamo far finta di niente, perché anche noi donne occidentali, in famiglia e sul lavoro, nel privato come nel sociale, siamo parte di quella rete tinta di rosa che avvolge il mondo e che tesse quotidianamente con energia e dignità, coraggio e perseveranza, la trama e l’ordito di un futuro diverso e migliore per tutti. Uomini compresi.

Anna Maspero per Il Reporter – http://www.ilreporter.com