Estratto di un articolo di Holly Kearl per The Women International Perspective, 15.4.2011, trad. e adattamento di Maria G. Di Rienzo. 
Holly Kearl lavora per l’Associazione americana delle donne universitarie a Washington, DC. E’ autrice del libro “Street Harassment: Making Public Places Safe and Welcoming for Women” , è la fondatrice del sito www.stopstreetharassment.com Ha scritto articoli per The Huffington Post, The Guardian, AOL, Forbes e Ms.

Cos’hanno in comune una donna di Bangalore, India, che aspetta un autobus ad un angolo di una strada affollata, un’adolescente del Queens di New York, vestita della sua uniforme scolastica, che aspetta il treno della metropolitana, e una ventenne di Drammen, Norvegia, che infagottata nel suo cappotto invernale torna a casa da sola dopo aver fatto visita ad un’amica?
Per tre anni, donne come queste, da trenta diversi paesi, hanno condiviso le storie delle molestie da loro subite sul mio blog “Stop Street Harassment” (Mettiamo fine alle molestie in strada). Nei loro interventi riferiscono dettagliatamente gli espliciti commenti sessuali, i rimarchi sessisti, i toccamenti, i gesti volgari, i fischi e le masturbazioni pubbliche che gli uomini impongono loro sulle strade, sui trasporti pubblici e nei negozi: solo perché sono femmine e si trovano in uno spazio pubblico.
Dopo aver scritto la mia tesi di laurea sulle molestie di strada quale studente della “George Washington University”, ho deciso che volevo fare di più rispetto a questo problema. Attraverso il blog, fornisco uno spazio dove persone da tutto il mondo possono condividere le loro esperienze ed aumentare la consapevolezza su quest’istanza globale. “Stop Street Harassment” è una piattaforma dove scambiare idee su come maneggiare la questione, che si sia fatto esperienza delle molestie o che si sia testimoni di esse.
I pochi studi a disposizione mostrano che la prevalenza delle molestie di strada è davvero alta. Più dell’80% delle donne ne hanno fatto esperienza in Canada ed Egitto; India e Yemen portano la cifra al 90%. E in solo due indagini condotte ad Indianapolis (Indiana) e nella Bay Area della California la cifra sale al 100%.
Mi sento oltraggiata da questa faccenda perché, a differenza di altre forme di aggressione, le molestie di strada sono riportate come complimenti, o seccature minori, o colpa delle donne stesse. Le molestie in strada sono un’istanza seria: impediscono alla donne di avere lo stesso accesso degli uomini agli spazi pubblici, o del sentirsi in essi benvenute e a proprio agio quanto gli uomini. Le molestie costringono le donne a stare costantemente in guardia, a controllare i dintorni, a nascondersi, ad evitare i contatti tramite sguardo e ad avere il cellulare sempre pronto in caso di bisogno.
E questi sono i dati delle mie ricerche: su base mensile, il 45% delle donne evita di trovarsi in spazi pubblici la sera, ed il 40% evita di trovarvisi da sola. Una su cinque ha cambiato casa per evitare le molestie e una su dieci ha cambiato impiego perché i molestatori le seguivano lungo il percorso casa-lavoro.
A volte mi sento disperata per la vastità della questione. Lo scorso anno, ho avuto l’idea di organizzare un giorno internazionale d’azione per far conoscere la pervasività delle molestie in strada e per contribuire a rompere il silenzio che le circonda. Ho pensato di dichiarare il 20 marzo, giorno dell’equinozio di primavera, Giorno contro le molestie in strada. Speravo di trovare 500 persone che volessero fare qualcosa il 20 marzo: condividere le loro esperienze, parlare ai membri delle loro famiglie della questione, e magari organizzare un evento o una manifestazione. Mi è stato subito chiaro che avevo toccato un nervo scoperto, perché gente da tutto il mondo sembrava aver atteso proprio quest’occasione per mettersi insieme e affrontare la cosa. Sono rimasta stupefatta dal numero di azioni organizzate, e dalle oltre 1700 persone che mi hanno risposto su Facebook dicendomi che si sarebbero impegnate.
Il 20 marzo non sono quasi riuscita a staccarmi dal computer tanti erano i messaggi, i post, le foto inviate dalle attiviste e dagli attivisti: Praga, Città del Messico, Il Cairo, Sudafrica, Canada, Trinidad e Tobago, Nuova Delhi. L’incredibile successo del Giorno contro le molestie in strada, ed il continuo flusso di persone che mi contatta dicendo: “Se l’avessi saputo avrei partecipato anch’io.”, significa che vi saranno altri Giorni simili negli anni a venire. E io so che ogni anno gli eventi saranno più vasti, con ancora maggior partecipazione, perché collettivamente ci rifiutiamo di restare in silenzio rispetto a questo problema e decidiamo di agire, di condividere le nostre storie, di chiedere che le aggressioni finiscano.

C'è riscatto nella voce

Di recente, l’allegro Pinocchio che abbiamo come capo del governo ha presenziato ad una cerimonia in cui si premiavano degli studenti universitari. Non mi interessa in modo particolare seguire i suoi spostamenti, ma il fatto era riportato in tre quotidiani italiani come se si trattasse di tre notizie diverse. Nel primo, che titolava qualcosa del genere “Show del premier” (siamo l’unico paese al mondo che si fa governare da cabarettisti), sembrava che l’illustre ospite avesse deliziato la platea studentesca ed il commentatore sottolineava le sue grandi capacità comunicative; nel secondo si parlava di “accoglienza tiepida” e la platea dei presenti era descritta come uno specchio delle opinioni di un paese ahinoi diviso a metà; nel terzo non si riusciva a capire cosa fosse realmente accaduto, forse un flop e forse no, perché la narrazione consisteva in sostanza delle arzigogolate, ed altrettanto confuse, opinioni del reporter sul mondo intero.
In sé, ripeto, non è neppure qualcosa su cui valga sprecare tempo e inchiostro, il vero problema è che tutte le notizie in Italia passano attraverso questo processo di manipolazione, infiocchettatura ed inscatolamento, di modo che noi non si possa mai sapere quel che succede. Mi sono quindi presa la briga di vedere se altri – la stampa estera – avevano notato e come l’esempio che mi era caduto sott’occhio. Ebbene sì, ma facendo giornalismo, cosa di cui in Italia si è perso il gusto. Fra i tanti, vi cito solo Newsweek, che come sapete non è organo di un partito comunista ne’ bollettino eversivo in fotocopia.
17 aprile 2011, autore del pezzo non menzionato. Titolo “Siamo trattate come prosciutto”. Estratto dall’articolo:
[“La sapete quella dell'italiano che tenta di insegnare ad un tedesco come si seduce una bella donna?”, chiede Silvio Berlusconi agli studenti universitari durante la cerimonia di premiazione. Fa una pausa, alza un sopracciglio, tentenna la testa, fa l'occhiolino: e poi sforna una battuta su sesso orale e calici da champagne. La barzelletta fa fiasco. La stanza è silenziosa. “Questa è la versione annacquata.”, dice lui, tentando di rimediare, “La versione originale è molto più divertente, come potete immaginare.”
Pochi minuti dopo ci prova di nuovo, sorridendo scioccamente a due ragazze bionde che sono là per ritirare premi per la loro eccellenza negli studi: “Congratulazioni.”, dice loro, “Voi due siete favolose. Sto pensando di invitarvi ad un bunga-bunga.” Si riferisce ai suoi scandalosi festini sessuali ed ottiene risatine imbarazzate in uno sconfortante silenzio. A Berlusconi è sempre piaciuto raccontare barzellette. Ma le donne italiane non ridono più. (...)
La rabbia si legge nei sondaggi. Il consenso delle donne a Berlusconi è crollato dal 48% dell'anno scorso al 27% attuale, il peggior risultato di sempre. (…)
Arcidonna ha denunciato Berlusconi, lo scorso mese, per 25 anni di abusi sulle donne italiane. “Il modo in cui il Primo Ministro si comporta, accusato ora di prostituzione minorile, è il colpo finale.”, dice Valeria Ajovalasit, presidente del gruppo di donne. (…)
I media italiani sono saturi di nudi femminili. Enormi cartelloni pubblicitari mostrano le donne in pose seduttive, a gambe aperte. I programmi radio sono infiorati di gemiti orgasmici. Le donne che appaiono in televisione hanno un rapporto stoffa-pelle nuda che farebbe arrossire Caligola. Nel suo doppio ruolo di proprietario dei mezzi di informazione e di capo di stato italiano, Berlusconi ha modellato più di chiunque altro lo scenario mediatico. Fra i programmi televisivi che offriva negli anni '70 c'era uno spettacolo di quiz dove una casalinga si toglieva un capo di abbigliamento ogni volta in cui un concorrente maschio rispondeva correttamente ad una domanda. Il format dei programmi televisivi, da allora, non è cambiato: gli uomini sono alla ribalta, partecipanti e vincitori, le donne sono sullo sfondo a togliersi i vestiti in silenzio. (...)
Secondo il rapporto del World Economic Forum sul divario di genere globale, in relazione ai diritti delle donne l'Italia si situa al 74° posto, dietro la Colombia, il Perù e la Romania. Gli indicatori includono la parità nei salari, la partecipazione alla forza lavoro e la violenza domestica. Altre statistiche rivelano che il 95% degli uomini italiani non ha mai usato una lavatrice, e che mentre le donne passano di media 21 ore la settimana a fare lavori domestici, gli uomini si arrestano a 4 ore.]
Il giornalista si prende la briga, com’è logico in chi sappia che mestiere fa, di intervistare donne italiane che i suoi lettori hanno sentito nominare (editrici, politiche, attrici), di citare le posizioni ed i silenzi della Ministra per le Pari Opportunità, di menzionare le proteste popolari, ed il titolo lo prende pari pari da un commento di Lorella Zanardo: “Le donne in televisione sono trattate come pezzi di prosciutto”.
E’ un buon pezzo sull’intreccio fra media, costume e politica, e ha chiaro da subito quali sono i soggetti principali che devono essere sentiti, se si parla di degrado e di uso e consumo dell’immagine femminile, cioè le donne. Cosa che nessuno dei tre articoli menzionati in apertura ha fatto, pur situandosi i giornali in cui sono apparsi sull’intero spettro politico a nostra disposizione (destra – finto indipendente – sinistra).
“Il silenzio è tutto ciò di cui abbiamo terrore. C’è riscatto nella voce.”, Emily Dickinson
Maria G. Di Rienzo

Io sono una donna politica

Intervista a Aung San Suu Kyi di Polly Toynbee, per The Guardian, 16 aprile 2011. Trad. Maria G. Di Rienzo. Ndt. : in tutto l’articolo non appare, se non nella menzione di un quotidiano, il termine “Myanmar”, ed il paese viene sempre definito “Burma”, cioè “Birmania”, e così ho tradotto.

La staccionata alta è dietro, a separare la sua casa dal lago che le sta accanto, ma questa volta è stata eretta dalla sua stessa gente per proteggerla, non per chiuderla dentro. Quanto libera è Aung San Suu Kyi, cinque mesi dopo la fine di 15 anni di arresti domiciliari? Non molto, o come un uccellino: dipende da come le fate la domanda.

Fragile, eppure forte come ferro, con le rose gialle e bianche nei capelli che sembrano smentire la sua volontà d’acciaio. Non stava bene, quando le abbiamo fatto visita questa settimana. Pure, entra nella stanza con un sorriso luminoso, con calore e grazia, ed il suo portamento eretto maschera la dolorosa spondilosi alla spina dorsale.

Andrew Comben, direttore del Festival di Brighton, ed io come presidente dello stesso, siamo venuti a filmare un’intervista, poiché Aung San Suu Kyi è la direttrice ospite dell’evento del maggio prossimo. Poiché non osa viaggiare all’estero, sapendo che i generali al governo della Birmania sin dal 1962 non la lascerebbero mai tornare, abbiamo deciso per il filmato. I suoi visitatori sono controllati, perciò c’è voluto qualche sotterfugio, nascondersi nei taxi e poi uscirne di soppiatto, prendere il traghetto sul fiume, e andarsene alla chetichella dall’ingresso posteriore dell’albergo, al fine di evitare la confisca del nostro film.

Eravamo entrati in contatto mesi or sono, quando Aung San Suu Kyi era ancora in stato d’arresto, e c’eravamo chiesti se avrebbe giudicato l’idea di dirigere come ospite un festival delle arti assurdamente frivola, o comunque irrilevante rispetto alla lotta del suo paese per la democrazia. Tutt’altro. Ha accettato deliziata: sebbene abbia trascorso 15 degli ultimi 21 anni in isolamento, ha un godimento estatico per moltissime cose. L’arte è importante, dice: “Se si riesce a far capire alle persone perché la libertà è così importante attraverso l’arte, ciò è di grande aiuto.” Esplorare i suoi gusti artistici, ciò che le piace, e i suoi ricordi è stato rivelatore e commovente. E sorprendente: ma di questo diremo poi.

La richiesta di libertà che attraversa come una tempesta il Medio Oriente spazzerà via le dittature ovunque, anche in Birmania?
“Gli esseri umani vogliono essere liberi e per quanto a lungo abbiano acconsentito ad essere prigionieri, a rimanere oppressi, verrà il giorno in cui diranno: Allora è così. Di colpo si troveranno a fare cose che non avrebbero mai immaginato, semplicemente per l’istinto umano che spinge i loro volti a girarsi verso la libertà.”

E quel momento è ora?
“Sempre più persone, in special modo i giovani, stanno capendo che se vogliono un cambiamento devono perseguirlo da se stessi: non possono dipendere da una persona particolare, ad esempio da me, perché tutto il lavoro sia compiuto. E’ meno facile ingannare le persone oggi di quando lo sia stato in passato, oggi sanno cosa succede in tutto il mondo.”

Il Medio Oriente non è mai menzionato nei giornali di stato birmani, organi che fanno sembrare la Pravda dell’era sovietica Wikileaks. “La Nuova Luce del Myanmar” reca avvertimenti sulla prima e l’ultima pagina: “L’anarchia genera anarchia. La rivolta genera rivolta, non democrazia. Spazzate via coloro che incitano alla sollevazione ed alla violenza.”, e attacchi alla BBC e a Voice of America: “Non permettiamo a noi stessi di essere sviati da trasmissioni assassine ideate solo per causare problemi.”

Aung San Suu Kyi ne ride, e chiama il giornale “La Nuova Peste del Myanmar” (gioco di parole fra “light-luce” e “blight-peste”, ndt.).

Il regime è scosso?
“La gente sa quel che accade a causa della rivoluzione avvenuta nelle comunicazione. Perciò le persone stanno diventando sempre più consapevoli del loro potenziale, e ciò va incoraggiato.”

Ma quale potrebbe essere la scintilla? Una rivolta nel 1988 fu dissolta dal governo tramite l’azzeramento dei buoni del tesoro in una sola notte, di modo che ognuno perse i propri risparmi. Le proteste del 2007, a cui parteciparono i monaci, ebbero inizio con un elevato aumento dei prezzi del riso.
“Nel momento in cui l’esercito comincia a sparare, la maggior parte delle sollevazioni si spengono in fretta. Ma per quanto tempo la gente resterà quieta dopo, quello è un altro paio di maniche.”

La gente guarda a lei, ed ora che è libera, la Lega Nazionale per la Democrazia ha un nuovo impulso, sebbene organizzarsi sia difficile, dato che tutti i suoi leader sono fra i 2.200 prigionieri politici del paese: sentenze fino a 65 anni di carcere sono state comminate a studenti. “Paura, paura, la paura è ovunque.”, dice Aung San Suu Kyi.

Eccetto che dentro di lei. Nel 2003 si tentò di assassinarla quando il suo convoglio venne assalito da criminali organizzati dal governo, e 70 dei suoi sostenitori furono uccisi in quell’assalto: picchiata e incarcerata allora, è rimasta in stato di arresto sino a quest’anno.

La sua gente vorrebbe proteggerla strettamente, ma lei rifiuta. Fa spallucce, e dice che se il regime la vuole morta, c’è poco che si possa fare.

Quanto libera è, ora? Se mette piede fuori di casa, la circondano migliaia di ammiratori ovunque vada. E’ andata a far spese con il figlio, una volta, ma ha dovuto essere salvata dall’assembramento dei fan. “Per fortuna, andare a fare spese non mi piace!”, e invero lo shopping deve essere poco attraente, in Birmania. Un tempo la seconda nazione più ricca del sudest asiatico, nonostante le sue molte risorse, è ora la più povera, e la meno libera dopo la Corea del Nord.

Aung San Suu Kyi è libera di viaggiare attraverso il suo paese? Non proprio, lei pensa. Non ha ancora messo piede fuori Rangoon: “Fino ad ora non ho tentato di andare in alcun posto dove non mi desiderassero, ma devo cominciare a saggiare le acque di nuovo.” Il suo lavoro la tiene inchiodata fra l’ufficio del partito e la sua casa, la sua ex prigione. I suoi lunghi anni di detenzione sono così eccezionali perché in parte sono stati volontari. La maggior parte dei prigionieri non ha scelta, ma ogni giorno lei avrebbe potuto camminare libera, dirigersi verso l’aeroporto e volare via, con i suoi carcerieri lieti di essersi disfatti di lei per sempre.

Ogni giorno, per quindici anni, ha dovuto prendere la decisione di restare, sola ed isolata, senza i due figli, e persino quando il suo amato marito stava morendo di cancro in Gran Bretagna, crudelmente bandito dal farle visita. Ma se voi le parlate di eccezionale risolutezza, lei si riferirà sempre ad altri prigionieri politici birmani tenuti in ben più dure condizioni, affamati, dalla salute minata: “Non penso di essere stata l’unica volontaria. Un bel po’ della nostra gente avrebbe potuto scegliere di non andare in prigione, se avesse smesso di lavorare per il movimento che chiede democrazia.”

E’ stato il rispetto dei generali per suo padre, eroe di guerra che morì combattendo per l’indipendenza della Birmania quando lei aveva due anni, a permettere che fosse incarcerata nella sua propria casa. Questa donna, Premio Nobel per la Pace, è stata anche protetta dall’opinione pubblica mondiale.

“Questa parola, “liberi”: – dice parlando di se stessa e degli altri prigionieri – noi tutti pensiamo di essere più liberi della gente che sta fuori, perché non abbiamo dovuto scendere a compromessi con la nostra coscienza. Stiamo facendo ciò in cui crediamo. Non siamo incarcerati dietro le sbarre del senso di colpa. Perciò, penso sia questo che ci ha fatto scegliere la prigionia al posto del restare, fra virgolette, “liberi”. Per noi, questo è il modo in cui viviamo le nostre vite.”

Negli ultimi cinque mesi, lei ha ridato vita alla Lega Nazionale per la Democrazia, stabilendo nuovi servizi umanitari, scavando pozzi, aprendo cliniche e scuole con pochissimo denaro. Scrupolosamente, la Lega non accetta donazioni da sostenitori stranieri, ma solo da donatori birmani. Aung San Suu Kyi ride, mentre racconta che come loro cominciano a scavare un pozzo, il governo si affretta a cercare di scavarne uno migliore: “E’ una cosa che fa un sacco di bene!”

Ma è difficile programmare incontri con gli organizzatori regionali senza fondi, è difficile sapere come vanno le cose da altre parti. Aung San Suu Kyi ha appena appreso degli ammutinamenti nell’esercito dal World Service della BBC, un salvagente, quando le informazioni sono così dure da ottenere. E’ sollevata che la programmazione della BBC diretta alla Birmania sia stata risparmiata dai tagli del governo, si dice “confusa” per la decisione di tagliare quella cinese. Dopo settant’anni, gli ultimi programmi della BBC in mandarino per la Cina sono appena stati trasmessi.

La pressione dall’esterno ha più impatto di quel che la gente normalmente crede, lei sostiene. E’ perciò che i generali si sono sentiti obbligati a dar forma ad una nuova Costituzione, sebbene essa lasci la medesima casta militare al governo del paese, solo vestita di abiti civili.

Le finte elezioni tenutesi prima del suo rilascio sono state dichiarate “profondamente compromesse” dalle Nazioni Unite. Il suo partito non si è presentato, poiché le condizioni per farlo includevano il ripudio di tutti i suoi prigionieri politici ed il giurare fedeltà ad una Costituzione che permette all’esercito di spadroneggiare in qualsiasi momento. Ma tali elezioni sono state sufficienti agli economisti occidentali neoliberisti per chiedere un compromesso e la cancellazione delle sanzioni, accusando nel contempo

Aung San Suu Kyi di “ostinazione”.

“Dicono che se potenziamo il commercio, il commercio ci porterà la democrazia. Dicono: Quello di cui avete bisogno è una classe media, e poi avrete la democrazia. Come in Cina?”, si chiede ironicamente, “Ma il Fondo Monetario Internazionale sostiene che il disastro della nostra economia è dovuto al suo malo uso, non alle sanzioni. Le ong invitano i funzionari pubblici a seminari sulla “costruzione di capacità”: ma il problema non è che i funzionari pubblici non sono capaci, è che non fanno niente se non ricevono una mazzetta.” La Birmania, su 180 paesi, ne ha solo quattro che la superano in corruzione. “Parlo con gli uomini d’affari, e loro mi dicono che ciò che previene le imprese dal nascere è che tutto casca nelle mani dei corrotti.”

Il suo messaggio è che la sola risposta sta nella democrazia e nella trasparenza, ma le ong non vogliono saperne di politica, il che la fa bruciare dall’indignazione. Cita Graham Greene: “Lui scrisse: Qualche volta, se sei umano, devi prendere una posizione. Loro dicono che noi non siamo pronti a fare compromessi. Non capisco cosa intendano. Le nostre menti non sono inflessibili, forse solo le nostra ginocchia lo sono. E noi non siamo in ginocchio.”

Il suo messaggio è che tutto è politico, e niente è apolitico. Con cristallina precisione, scandisce le parole a tutte maiuscole: “Io sono una donna politica. Sarà una parolaccia, ma è ciò che ho scelto come professione. Io sono una donna politica!”

Parliamo quindi del generale disprezzo per la politica, mentre il voto continua a declinare in occidente: “Chiedete loro se emigrerebbero in uno stato totalitario.”, risponde.

Ma si preoccupa del fatto che anche quando la libertà arriva, la gente ha la memoria corta se i risultati del governo non raggiungono le aspettative? “Ho sempre tentato di spiegare che la democrazia non è perfetta. Ma almeno ti dà la possibilità di forgiare da te stesso il tuo destino.”

Nonostante tutto, sembra che la politica non occupi l’intera sua vita, mentre racconta di cosa l’arte ha significato per lei. Beethoven era una scelta che ci aspettavamo: “Per molte persone, rappresenta non solo la grandezza della musica, ma la grandezza del pensiero dietro di essa. Ho spesso desiderato, in questi ultimi anni di detenzione, di essere una compositrice perché in tal modo avrei potuto esprimere quel che sentivo attraverso la musica, che in qualche modo è più universale delle parole.” Perciò il nostro Festival comincia con Fidelio, l’opera del prigioniero. Durante la detenzione, Aung San Suu Kyi ha suonato il pianoforte ogni giorno.

Ha ricordato la sua passione per T.S. Eliot quando era ad Oxford a studiare politica ed economia, perciò il Festival produrrà i Quattro Quartetti, accompagnati da un quartetto d’archi di Beethoven. Poi prende in giro le poesie tremende che le venivano insegnate a scuola nella Birmania coloniale e le recita ridendo. E infine c’è una sorpresa.

Di recente apprezza i Grateful Dead, in particolare “Standing on the Moon”: “Lo avete mai ascoltato? A me piace molto. Mio figlio mi ha insegnato ad apprezzarlo. Anche Bob Marley. Mi piace “Get up, Stand up for your rights” (“Alzati, ergiti per i tuoi diritti”, ndt.). Abbiamo bisogno di più musica di questo tipo.” E così il Festival le ha portato Lee Scratch Perry, uno dei mentori di Bob Marley.

Prima che ce ne andiamo, lei ci ferma per piegare un origami, un fior di loto, da mandare al Festival, dove si aggiungerà a tutti quelli posati a galleggiare nel lago del Queen’s Park, a simboleggiare i molti prigionieri politici birmani.

Abilmente le sue dita si muovono avanti e indietro, e lei rammenta quando faceva la stessa cosa con i suoi figli piccoli. Eccola là, un’icona, il raggio della libertà, un simbolo mondiale di forza e perseveranza, che ride e piega la carta. Come sempre, con il buonumore e la grazia, indossa il suo eroismo leggermente.

 Aung San Suu Kyi è la Direttrice Ospite del Festival di Brighton del 2011. Il Festival si terrà dal 7 al 29 maggio prossimi. www.brightonfestival.org

Il nostro compito

Navi Pillay, Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, 5 aprile 2011
(estratto dal discorso tenuto durante il forum su “Religioni, credi e diritti delle donne”, ad Atlanta – Usa, trad. Maria G. Di Rienzo)


Il coraggio e la determinazione delle donne in Medio Oriente ed in Nord Africa dovrebbero essere una fonte di ispirazione per tutti noi, donne ed uomini che lottiamo per raggiungere il pieno rispetto dei diritti umani in generale ed il rispetto per i diritti di bambine e donne in particolare. Indossando i jeans o l'hijab, fosse la loro visione laica o religiosa, le donne sono state la prima linea delle dimostrazioni. Hanno reclamato lo spazio pubblico e la pubblica attenzione. Hanno chiesto cambiamento. Sapevano di essere quelle che avrebbero sofferto di più dalla perpetuazione dello status quo.
Dobbiamo ora sostenere queste donne, di modo che lo spazio che hanno reclamato ed ottenuto tramite quelle proteste rimanga pienamente aperto, per loro e per i gruppi a rischio. Dobbiamo stare attenti alla ricomparsa di pratiche discriminatorie e di intolleranza durante il periodo di incertezza che è inevitabile nelle transizioni politiche. La dignità di ogni essere umano, al di là del suo sesso e delle sue origini, è fondamentale per tutte le fedi e tutte le culture. Essa è anche la base della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Tradizioni, credenze e valori cambiano con il tempo, e sono viste e interpretate in modo differente all'interno delle società. Ci sono tradizioni di odio, proprio come ci sono tradizioni di tolleranza; tradizioni di repressione, proprio come ci sono tradizioni di liberazione; e tradizioni di deprivazione ed esclusione, proprio come ci sono tradizioni di giustizia sociale. Questi contrasti si trovano nelle storie di tutti i paesi ed in molti sistemi religiosi.
Il nostro compito è quello di essere pienamente ed inequivocabilmente dalla parte di coloro, in ogni società, che promuovono e difendono i diritti umani, e di stare con coloro che credono nella dignità umana e nell'uguaglianza fra umani.”

Nessuno è il nostro proprietario

Comunicato finale dell'incontro fra sopravvissute al traffico di esseri umani ed alla prostituzione dell'area Asia/Pacifico, Nuova Delhi, 3 aprile 2011, trad. Maria G. Di Rienzo. Fonte: Coalition Against Trafficking in Women.

In questo incontro, abbiamo condiviso storie di resistenza, di sopravvivenza, di guarigione, di ripresa, di accesso all'istruzione, di auto-organizzazione e di mobilitazione.
Collettivamente, siamo d'accordo sul rigettare la legalizzazione dell'industria della prostituzione che serve come sponda al traffico a scopo sessuale, e sul punire i compratori e gli affaristi, non le donne. Come Fatima, una delle nostre leader, ha detto: “Fino a che ci saranno compratori, non metteremo fine al traffico a scopo sessuale.” Le leggi nella nostra regione hanno a lungo criminalizzato e stigmatizzato coloro che vengono sfruttate come prostitute, mentre sono quelle che le società ed i governi avrebbero dovuto proteggere.
La prostituzione continua ad esistere a causa delle false idee che le donne siano inferiori, oggetti sessuali e a disposizione, e che gli uomini siano superiori, i soli decisori e i soli a poter possedere proprietà. Molte di noi hanno sofferto matrimoni precoci, incesto, stupro, forme diverse di abuso infantile e violenza domestica prima di diventare vittime della prostituzione.

Il sistema può funzionare grazie alla disparità economica fra ricchi e poveri, e perché le politiche dei nostri paesi continuano a fare compromessi con i turisti sessuali, con gli eserciti stranieri e nostrani, e con i grandi affaristi, a spese delle vite e dell'integrità corporea delle donne. Questo è il lavoro delle politiche patriarcali, militariste e neo-liberiste.
Noi ci uniamo alle nostre sorelle nel movimento femminista e nel movimento dei lavoratori che chiedono lavoro, non prostituzione; che chiedono programmi economici che creino impiego locale sostenibile, e che non spingano le donne fuori dai loro paesi; che chiedono la socializzazione dell'economica di cura e cioè il riconoscimento che il lavoro domestico è lavoro; che chiedono più fondi per le donne e meno per le spese militari.

Noi ci uniamo ai movimenti Dalit, dei popoli aborigeni ed indigeni della nostra regione che denunciano come le nostre comunità siano i bersagli del traffico a scopo sessuale e della prostituzione. Abbiamo con noi giovani, inclusi gli uomini, e donne che lavorano a livello di base, che continuano a sfidare non solo i sistemi politici ed economici ma anche le ideologie della mascolinità che tengono le donne in subordine.
Chiediamo servizi sanitari estesi, per noi donne e per i nostri bambini, perché i nostri bisogni rispetto alla salute sono molteplici. Chiediamo agli attivisti che contrastano la diffusione dell'Hiv-Aids di rigettare la legalizzazione dell'industria del sesso, di non rassegnarsi a chiamare la prostituzione “lavoro del sesso”, ma di tornare ad essere attivisti per i diritti riproduttivi e sessuali delle donne, il che concerne il controllo delle donne sui loro propri corpi, non lo sfruttamento di essi da parte dei compratori e dell'industria.

La guarigione femminista dovrebbe riconoscere il continuum della violenza, promuovere famiglie alternative (invece di respingerle nell'area di origine, dove possono essere vittimizzate di nuovo), incrementare il sostegno della comunità e far emergere la creatività femminile. E tutti i servizi devono includere i bambini.
Noi chiediamo progetti generatori di reddito che siano sensibili al genere (lavori non tradizionali) e che onorino i principi della cooperazione, della sostenibilità, della condivisione dei profitti e del commercio equo. I governi dovrebbero provvedere alloggi per le numerose donne e bambine che hanno fatto esperienza della prostituzione e che non possono tornare nelle loro comunità, dove i loro parenti sono coloro che le hanno vendute.

Noi chiediamo assistenza legale gratuita e protezione dei testimoni. Chiediamo ai governi locali e nazionali di coinvolgere le donne nelle decisioni da prendere e di revocare le licenze agli stabilimenti della prostituzione.
Noi, ed in special modo i giovani e le giovani fra noi, chiediamo si favorisca la consapevolezza di genere e chiediamo maggior accesso all'istruzione superiore.
I movimenti sociali devono portare avanti campagne pubbliche di prevenzione ed informazione assieme a noi, ed aiutarci a spostare lo stigma dalle vittime ai perpetratori: i compratori ed il sistema d'affari che ruota loro intorno.

Noi chiediamo l'applicazione dei diritti di cittadinanza a tutti, e specialmente alle donne coinvolte nella prostituzione, come diritti umani fondamentali. Le vittime del traffico oltre i confini non dovrebbero essere rimosse a forza dal paese di destinazione ma fornite di aiuti consistenti in accordo con i principi del Protocollo di Palermo.

Noi rafforzeremo i nostri gruppi di auto-aiuto e le nostre reti fra i giovani, le sopravvissute ed i movimenti sociali. Chiediamo in primo luogo la rimozione delle leggi che criminalizzano le prostitute e che esse siano sostituite con leggi che penalizzano i compratori e gli affaristi. Queste leggi dovrebbero includere l'estradizione di trafficanti e compratori affinché il procedimento legale nei loro confronti sia sicuro.

Nessuno è il nostro proprietario. Non il marito, non il padre, non il magnaccia, non il compratore, non l'industria del sesso. Noi ribadiamo di star lottando per la nostra integrità fisica e la nostra autonomia.
Infine, collettivamente ci promettiamo di continuare il nostro viaggio verso la guarigione, la ripresa, il darsi potere e l'attivismo, nel mentre istruiamo, organizziamo e mobilitiamo noi stesse per cambiare la società e sradicare il patriarcato, il razzismo, il sistema delle caste, il militarismo ed il capitalismo che generano e sostengono la prostituzione ed il traffico a scopo sessuale.

L’inarrestabile Sunita

Sunita Murmu

In questi giorni è una celebrità. E’ infatti tra i 26 minori onorati dalla Presidente indiana Pratibha Patil con il “Premio nazionale per il coraggio”, conferito annualmente a ragazzi e ragazze per i loro atti di coraggio nella vita quotidiana. Grazie al riconoscimento, sta seguendo un corso di studi triennale ed i suoi insegnanti dicono che non solo è assai svelta ad apprendere ma che è anche molto capace nel tessere relazioni con i coetanei. Fino a poco tempo fa, però, la sedicenne Sunita era invisibile come tutte le altre adolescenti dei villaggi nel distretto di Birbhum, a malapena alfabetizzata, e lavorava come operaia a giornata per mantenere i suoi genitori. Alle ragazze della sua età capita normalmente di innamorarsi per la prima volta, e ciò accadde l’anno scorso anche a Sunita. Ma quella che doveva essere un’esperienza di apertura, di tenerezza e di sogno, di crescita e di consapevolezza, per la fanciulla diventò presto un incubo. Il ragazzo di Sunita era del villaggio vicino, di un’altra tribù.

Gli insediamenti rurali indiani sono normalmente organizzati attorno ad un “panchayat”, o consiglio di villaggio, che viene eletto, ma grazie all’enfasi crescente posta sull’appartenenza tribale, il villaggio di Sunita, che si chiama Santhal, di “panchayat” ne ha due: quello legale, e quello autoproclamato, composto per lo più di criminali, che ritiene di essere il custode dell’onore della tribù e si fa le leggi da se stesso, a fantasia. Quando questo consesso, i cui membri – mi vien da dire “ovviamente” – sono solo uomini, e a stento ventenni, venne a conoscenza della relazione di Sunita la giudicò meritevole di castigo. La ragazza fu quindi assalita, spogliata completamente in pubblico e portata in giro per il villaggio, subendo nel processo sputi, insulti, lanci di oggetti e svariate molestie sessuali da parte di alcuni suoi virtuosi compaesani. La cosa doveva essere abbastanza divertente per il consiglio tribale autoproclamato, perché non solo Sunita fu fatta sfilare nuda per otto chilometri, ma della parata i “consiglieri” presero fotografie e video, trasformandoli poi in mms che furono mandati a chiunque avesse un telefono nel villaggio (e cioè praticamente a tutti).

Dopo due ore di tortura, la ragazza fu abbandonata dove si trovava – voi capite che farla camminare per otto chilometri significa uscire dal villaggio ed offrire lo spettacolo anche a vicini, passanti e così via – e tornò a casa senza che nessuno si offrisse di aiutarla. La vicina stazione di polizia di Mohammadbazaar non mosse un dito per soccorrerla. Il “panchayat” legalmente eletto se ne stette ben zitto. I genitori di Sunita avevano più paura di tutti e le dissero di fare altrettanto. Per due mesi la ragazza visse in un angolo della sua capanna, isolata e ignorata. Quando si sollevò dalla disperazione e disse ai suoi che voleva giustizia, fu rinchiusa e l’intero parentado si presentò a suggerirle di dimenticare e di lasciar perdere. Sunita non riesce ancor oggi a crederci: “Continuo a chiedermi come potevano persino pensare che avrei potuto dimenticare quel che mi era accaduto. Io vivo con quel dolore, e quel dolore resterà con me per sempre. Ma da ora in poi, lotterò per mettere fine ai crimini commessi contro le donne in nome dei cosiddetti valori tradizionali.”

Sunita dalla polizia c’è andata da sola, di soppiatto. Ha sporto denuncia. Quando la polizia è venuta a casa sua per le indagini, la famiglia le ha detto di non cooperare, ma Sunita da quell’orecchio non ci sentiva più. Bidhan Ray, un funzionario delle forze dell’ordine che ha seguito il caso, ricorda: “E’ raro che una vittima abbia tanta fiducia e perseveranza. Noi pensavamo che la depressione non le avrebbe permesso di collaborare alle indagini in modo significativo. Spesso le vittime di crimini diventano ostili e reticenti. Ma Sunita identificò senza paura tutti i perpetratori. La sua forza d’animo le avrebbe vinto il sostegno di chiunque.” I sei organizzatori dell’oltraggio alla ragazza furono arrestati nel giro di due giorni. Temendo una ritorsione da parte dei sostenitori del “panchayat” fittizio, l’amministrazione pubblica inviò la ragazza ad una struttura comunitaria di Rampurhat, dove si trova tuttora. Non è stata una precauzione di troppo: i suoi torturatori sono oggi fuori di galera su cauzione, parecchi membri della sua famiglia si rifiutano ancora di avere a che fare con lei, e nel villaggio si mormora che se tornasse a casa la sua vita non varrebbe un soldo.

Niente di tutto questo ha scosso davvero Sunita: “Non sono tornata al villaggio, ma questo non significa che io abbia fatto qualcosa di sbagliato. Voglio prima finire gli studi, poi tornerò e lotterò per le altre ragazze che sono state abbandonate come me.” E sembra quasi che queste altre ragazze lo sappiano. In tutta la regione, la notizia del premio nazionale per il coraggio ad una di loro, la storia dell’inarrestabile Sunita, è sulle bocche delle adolescenti. E sono bocche che la raccontano sorridendo d’orgoglio.

Maria G. Di Rienzo

La città della gioia

I resconti della violenza sessuale in Congo potrebbero fornire materiale a migliaia e migliaia di film horror. Non si tratta di “semplici” stupri, ma di assalti sadici che comprendono mutilazioni, torture, umiliazioni e – abbastanza spesso – femminicidio finale. Diplomatici, volontari, membri delle ong, accademici, governanti non sanno fornire una risposta al proposito. Le forze delle Nazioni Unite colà inviate non sono state in grado di maneggiare il problema. Nessuno mi chiama in piazza per le donne del Congo, ma d’altronde neppure per quelle del Bangladesh che si suicidano per sfuggire alle molestie e alle aggressioni, o per quelle indonesiane che vengono portate in tribunale a difendersi dall’accusa di essere state stuprate. Non sarebbe opportuno, d’altronde, protestare. Sono i loro affari interni, noi siamo molto rispettosi delle loro culture, per cui che le donne crepino pure – purché i maschi diritti dei popoli all’efferatezza e al disprezzo della vita umana vengano salvaguardati.

Eve Ensler, l’autrice de “I monologhi della vagina”, alla domanda su che si può fare per estinguere la piaga delle violenze sessuali in Congo, una risposta ce l’ha: “Si organizzano le donne. Quando ci sono abbastanza donne nei luoghi decisionali le politiche che ne sortiscono sono differenti. Vedrete. Le congolesi diranno: Non intendiamo tollerarlo un minuto di più e metteranno fine al problema.”

Per questo nel febbraio scorso ha aperto con loro, a Bukavu, la Città della Gioia. I fondi sono stati raccolti tramite i V-Day (gli spettacoli in cui sono rappresentati i testi de “I monologhi della vagina”) e un contributo notevole è venuto dall’Unicef. L’idea della Città è del tutto indigena: donne congolesi dissero ad Eve Ensler, tre anni orsono, che quello di cui avevano bisogno era un luogo sicuro in cui potessero imparare e diventare catalizzatrici di un radicale cambiamento sociale.


La Città della Gioia ospiterà ogni anno 180 donne. E’ un complesso che comprende grandi aule, cortili, verande: sarà la loro “università”, quelle in cui le sopravvissute allo stupro e alla tortura, in maggioranza analfabete, acquisiranno conoscenze per poi istruire altre donne nei loro villaggi.

Ci sono corsi sui diritti umani, corsi di autodifesa, corsi professionali e di agricoltura e di uso del computer; c’è la volontà di esorcizzare i traumi con le sessioni terapeutiche e la danza, ma soprattutto ci sono loro, le donne che hanno costruito con le loro stesse mani la Città. Hanno subito abusi brutali per anni, sono state violate con fucili d’assalto e bastoni di legno, il che ne ha lasciate molte sterili e incontinenti per il resto della loro vita: eppure, nessuno è riuscito a spezzarne lo spirito. Alla festa di apertura ballano tenendo in mano le cazzuole e i secchi che hanno usato per lavorare al loro sogno. Ad accogliere i dignitari del governo e la pesante scorta armata che li accompagna ci vanno i loro bambini, piedi nudi nel fango, sorrisi smaglianti. Le dita contratte sui grilletti si scostano, le mani si infilano in tasca.

Intanto, alcune “residenti” della Città portano a Eve Ensler, a sopresa, il regalo che hanno scelto per lei. E’ la statua lignea di una madre con bambino. Si accalcano contro di lei, danzando, e cantano: “Perché hai accettato di prenderci fra le braccia? Ora non ti lasceremo più.”

Maria G. Di Rienzo