Utili risorse

Nel maggio dello scorso anno, un consiglio di chierici afgani a Herat emana una “fatwa” che proibisce alle donne di viaggiare. A meno che non siano accompagnate da padre o fratello o altro “mahram” (parente non sposabile), spiega il capo del consiglio Muhammad Kababeyane, le donne che viaggiano da sole sarebbero in fallo anche se stessero facendo il pellegrinaggio alla Mecca. Inoltre, aggiunge, non dovrebbe essere loro permesso di usare cosmetici fuori dalle mura di casa propria. Chiusura: il fiero consiglio “non intende chiudere gli occhi sulla situazione” e chiede al governo di emanare le leggi necessarie. Quindi, il peggio che Kababeyane e i suoi accoliti vedono in un paese occupato militarmente, devastato da trent’anni di guerra, tuttora non unito e teatro di scontri armati, dove la maggioranza delle persone non ha ancora accesso ai servizi di base e non ha cibo sufficiente, cos’è? Il fatto che una donna viaggi da sola, magari con un po’ di rossetto sulle labbra.

Sempre nel 2010, a novembre, il consiglio locale di Baliayan, Uttar Pradesh, India, bandisce l’uso del telefono cellulare alle giovani donne non sposate: il problema è che tramite telefono si mettono d’accordo con gli uomini che amano e li sposano anche se ambo le famiglie sono contrarie, spesso rompendo le divisioni di casta. Ai giovani scapoli l’uso del cellulare è permesso, dice il portavoce del consiglio Satish Tyagisi, si consiglia però ai genitori di vigilare. L’India ha seri problemi di povertà, discriminazione, dissesto ambientale, femminicidio, ma a Baliayan hanno individuato il più grave e urgente: il fatto che una donna sposi chi vuole.

All’inizio di quest’anno, in gennaio, il gruppo islamista al-Shabab che controlla gran parte del centro e del sud della Somalia (il paese non ha un governo unico e stabile sin dal 1991), proibisce le strette di mano fra uomini e donne nella città di Jowhar. Maschi e femmine che non siano parenti non possono altresì camminare insieme o parlare insieme in pubblico. Il gruppo ha in precedenza bandito, nell’area, l’ascoltare musica e il suonarla. Gli ultimi vent’anni di scontri fra gruppi “insorgenti” in Somalia hanno prodotto un milione di morti ed un milione e duecentomila rifugiati interni. Un terzo del paese morirebbe letteralmente di fame se privo degli aiuti umanitari. Ma la cosa impellente qual è? Impedire alle persone di stringersi le mani.

E’ difficile trovare una spiegazione razionale agli eventi citati, però mi rifiuto di credere che tutti questi decisori siano mentalmente labili, incapaci di intendere o sotto l’effetto costante di stupefacenti. Voi capite, per esempio, che quando si deve imporre un comportamento per legge questo comportamento non ha niente a che fare con gli usi o le tradizioni. Al nostro governo, che pure di idiozie ne fa parecchie e persino di criminali, non verrebbe mai in mente di imporre per decreto che gli italiani mangino spaghetti: il piatto fa parte della nostra tradizione culinaria e lo mangiamo già senza bisogno che nessuno ci obblighi. Quindi la scappatoia consueta, “sono i loro diversi costumi che siamo tenuti a rispettare”, non funziona. Non va bene neanche la fuga in seconda battuta, “è la loro religione, sono obblighi di fede”, perché sfido chiunque a trovare nei testi sacri la prescrizione dell’accompagnamento coatto in viaggio e del matrimonio forzato, o il bando della stretta di mano.

L’unica idea che ho al proposito è questa: i religiosi afgani, i consiglieri indiani, i guerriglieri somali la rovina che hanno intorno la vedono sin troppo bene. Sanno anche di esserne corresponsabili, ma non hanno il coraggio di affrontare la situazione, di rivedere mezzi e scopi, di ammettere errori e di emendarli. Le risorse materiali a loro disposizione sono scarse e ciò fa sì che si sentano sia impotenti sia minacciati. La gente che vogliono “guidare” in un senso o nell’altro potrebbe pensare, e financo dire, che loro non stanno facendo proprio niente per il benessere generale. Allora finiscono per chiedersi: cosa c’è a disposizione per stornare l’attenzione, chi possiamo biasimare affinché il biasimo non cada su di noi?

Sono più di vent’anni che sento rubricare le donne sotto la voce “risorse non utilizzate”. Vedete bene che è una menzogna, vero? Maria G. Di Rienzo

Pentole vuote

di Beatrice Lamwaka per Global Press Institute, 18.5.2011, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo


Kampala, Uganda. Rita Achiro, direttrice esecutiva dell’Uganda Women’s Network, dice che la marcia di protesta di centinaia di donne della scorsa settimana non mirava a minacciare il governo: era la richiesta pacifica allo stesso di essere responsabile. “E’ per questo che vestiamo di bianco, – ha spiegato il suo gruppo in un comunicato stampa – perché il bianco è il colore della pace.” Le donne hanno consegnato il comunicato a Margaret Sekaggya, un’avvocata ugandese che è attualmente la speciale inviata delle Nazioni Unite per i difensori dei diritti umani e che ha promesso di portare il documento alla Commissione NU per i diritti umani a Ginevra.
Durante la manifestazione, le donne hanno chiesto giustizia e pace e protestato per gli aumenti dei prezzi del cibo e del carburante, e per la brutalità mostrata di recente dalla polizia ed altre forze di sicurezza. Indossando appunto il bianco della pace, hanno battuto su pentole vuote con bastoncini o cucchiai di legno mentre entravano a Kampala, la capitale dell’Uganda. “La pentola vuota dice che le donne non hanno cibo.”, commenta Ruth Odhiambo, direttrice esecutiva del Centro di scambio interculturale di Isis-Women’s International. Il costo del granoturco, un alimento di base in Uganda, è aumentato del 114% durante l’ultimo anno. Le dimostranti hanno anche condannato l’eccessivo uso di forza impiegato nel disperdere le persone che protestano a causa dell’inflazione.
Sui loro cartelli si leggeva: “Per un paese senza pane le pallottole non possono essere cibo”, “Smettete di sparare ai nostri bambini”, “Le donne ugandesi vogliono la pace”, “Rispettate i corpi delle donne durante gli arresti”.
La violenza è cresciuta in modo esponenziale, qui, sin dalla metà di aprile quando la gente dell’Uganda ha cominciato a protestare per la situazione economica, incoraggiati dal gruppo “Attivisti per il cambiamento”. Le azioni organizzate si chiamavano “Cammina per andare al lavoro”. Le forze governative hanno ucciso 10 persone durante queste proteste, secondo i dati forniti da Human Rights Watch, e la polizia ammette che più di 100 persone sono rimaste ferite, mentre 600 sono state arrestate in tutto il paese. Un’attivista della marcia delle donne, il cui nome non è fornito per ragioni di sicurezza, spiega che non c’è nessuno a cui chiedere aiuto: “Abbiamo parlato al governo per dire che le donne ugandesi sono stanche del gas lacrimogeno e della violenza, e che abbiamo paura della polizia: non possiamo affidarci alla polizia quando abbiamo bisogno di aiuto.”
Il capo della polizia ugandese, Kale Kayihura, è apparso in televisione per annunciare che la polizia sta rispondendo alla richiesta del Parlamento di usare minor brutalità contro i dimostranti. Il presidente Yoweri Museveni ha invece continuato a ripetere che nessuna protesta rovescerà il suo governo, al potere dal 1986, un governo che secondo i difensori dei diritti umani dovrebbe aprire un’inchiesta sul comportamento delle forze dell’ordine. Nel mezzo del lievitare dei prezzi, le spese del governo hanno attratto attenzione: le spese per le campagne elettorali in Uganda non sono registrate ufficialmente ma Andrew Mwenda, editore del settimanale “The Indipendent”, stima che il partito di governo abbia speso circa 350 milioni di dollari (in buona parte fondi statali) per assicurarsi il seggio presidenziale nelle elezioni dello scorso febbraio. Nel frattempo, secondo i dati dell’Unicef, più della metà della popolazione ugandese vive sotto la soglia di povertà di un dollaro e venticinque centesimi al giorno. Le aderenti alla Federazione internazionale delle avvocate stanno nel frattempo ricordando al governo che esiste una Costituzione: “Lo stato ha l’obbligo di rispettare, promuovere, proteggere e soddisfare i diritti dei suoi cittadini, come sta scritto sulla Costituzione del 1995 e su altri trattati regionali ed internazionali di cui l’Uganda è firmatario.”
Prima della marcia delle pentole vuote, la polizia ha ripetutamente avvisato le dimostranti di non fare dichiarazioni politiche. Una di esse, Jessica Nkuuhe, commenta: “Ma il cibo che vogliamo mettere sulla tavola è politica. Il gas lacrimogeno, i prezzi del carburante: sono tutte dichiarazioni politiche.”

Ne mancano 50 milioni



Estratto di un’intervista a Rita Banerji, scrittrice ed attivista per i diritti umani, ideatrice della “Campagna 50 milioni mancanti” – “50 Million Missing Campaign”, di Soraya Nulliah, artista multimediale. I cinquanta milioni che mancano all’appello sono donne. 
Aprile 2011, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo, www.sorayanulliah.com 


Il genocidio femminile nella cultura indiana è un problema sistemico. Non riguarda solo l’economia, ma è qualcosa di ben più pervasivo. Secondo te, perché le donne sono così svalutate e disumanizzate?
Come discuto nel mio libro “Sesso e potere”, il genocidio femminile in India ha le sue radici profonde nella storia, cultura e religione del paese, che sono estremamente misogine (specialmente l’induismo). Si tratta di gerarchie sociali. Quando un gruppo, come la casta superiore degli uomini Hindu, vuole stabilire il proprio dominio e aver poter sugli altri gruppi (donne e caste inferiori) per poter sfruttare, soggiogare ed annichilire a volontà, stabilisce una logica sociale che – per quanto illogica intrinsecamente – diventa la verità dell’esistenza della comunità. Il modo migliore per far rinforzare tale logica ed assicurarsi che non cambi è trasformarla in legge religiosa.
Le donne e le caste inferiori, secondo i testi vedici, sono creati dalle parti più sporche e basse del corpo: i piedi. La letteratura Hindu è piena dei riferimenti più degradanti per le donne: sono avide, hanno il cuore di sciacallo, sono lupi orribili, ingannatrici, infedeli, malvagie peccatrici. C’è anche la paura stravagante degli uomini per la sessualità femminile. Credevano che il sangue mestruale potesse uccidere gli uomini. In più, assieme agli schiavi, agli oggetti e alle case, le donne erano ufficialmente classificate come “proprietà” degli uomini. E’ la forma ultimativa del soggiogamento, il rendere un essere umano bene di proprietà. Così, come per ogni altro bene, tu puoi essere comprata e venduta e di te si può disporre a piacere. Durante una guerra, un re poteva dare le sue figlie agli invasori o agli aggressori per tenerli distanti. Questo è il motivo per cui nel “Mahabharata” Draupadi può essere usata come posta in gioco dal marito scommettitore, che aveva perso tutte le sue altre proprietà.
Ci sono inni sull’infanticidio femminile ed il “sati” (il suicidio delle vedove, ndt.) nei nostri libri. Sita fu trovata in una pentola sepolta nel terreno: ma questa non è la Terra che partorisce, è la più antica registrazione del soccorso portato ad una bambina che sarebbe stata vittima dell’infanticidio femminile; si tratta del mondo in cui le infanti venivano uccise nell’India del nord.

Una volta che si sia consci del genocidio/ginocidio nella cultura indiana, c’è qualcosa che si può fare? Cosa può fare una persona comune?
 C’è un unico modo per fermare qualsiasi tipo di genocidio. Un genocidio, a causa della sua scala e intensità e della sua natura sistemica richiede sempre un responso altamente organizzato ed accuratamente coordinato, interdisciplinare. Ciò è stato vero per ogni genocidio della storia umana. Come dico sempre, se invece delle donne l’India stesse annientando gente di una religione o di un’etnia specifica su questa scala, quale sarebbe il responso globale? E perché deve essere diverso se il gruppo preso a bersaglio è annientato a causa del genere? Continuiamo a dire “genere”, ma sono donne!
Se una nazione odiasse i bambini e gli uomini e ne spazzasse via milioni, e si finisse con la popolazione di quel paese che conta 50 milioni di donne in più rispetto agli uomini, scommetto che i media internazionali avrebbero rivisitato i miti delle Amazzoni e parlato di vendetta. Io credo che il responso globale al genocidio femminile in India sia in se stesso misogino.
Individualmente dobbiamo prenderci la responsabilità per le scelte che facciamo nelle nostre vite, e per come rispondiamo a ciò che testimoniamo attorno a noi, nelle nostre famiglie e comunità. La violenza è l’istanza principale. Ma ti farò un piccolo esempio. Una signora che conosco era insegnante all’IIM, l’Istituto manageriale d’élite indiano, e fu invitata al ricevimento matrimoniale di uno dei suoi studenti, ma non al matrimonio vero e proprio. La ragione era che questa signora è vedova e perciò, secondo le credenze Hindu, sarebbe stata una presenza “infausta” alla cerimonia. Ne rimase assai ferita, ma andò al ricevimento. Io le dissi che se persino gli indiani più altamente scolarizzati non prendono posizione, che speranze abbiamo noi? Non avrebbe dovuto accettare l’invito o avrebbe dovuto chiarire allo sposo che ne pensava. Nel seguire l’usanza silenziosamente questa insegnante ha contribuito alla perpetuazione di un altro costume brutto e distruttivo. Perciò io penso che sia molto importante come ognuno di noi risponde. Se stai zitto e ti accordi al vento che tira sei parte del problema. E questo è vero anche per le persone che non sono indiane ma vengono in contatto con la comunità indiana tramite il viaggio, il lavoro, l’amicizia e restano mute o seguono le usanze per “mantenere la pace” o “non offendere gli indiani”. Mi spiegate perché? Non avete una coscienza vostra, indipendente?

Tu hai lavorato con il movimento delle donne Chipko sotto la direzione della dottoressa Vandana Shiva. Quest’esperienza ti ha cambiata e come? Come lavora l’ecofemminismo, come rinforza le donne? 
 Mi è veramente piaciuto lavorare con Vandana Shiva, perché mi ha dato ampia libertà e scopo per il mio giudizio personale, cose di cui ho bisogno per qualsiasi lavoro io faccia. Mi ha dato un paio di progetti fra cui scegliere e da quel momento in poi ero per conto mio. Le presentavo un rapporto settimanale e lo discutevamo.
Dovevo creare un erbario delle piante esistenti nel raggio di un chilometro, per stabilire la biodiversità della regione, e fare un disamina ecologica generale della zona di Sisiyaru-khala (nella valle Doon) dove gli industriale della calce stavano sfruttando intensamente le montagne. Gli abitanti locali mi hanno aiutata a classificare l’erbario dapprima secondo il sistema popolare, che è basato sull’uso (piante da cibo, piante medicinali, piante da foraggio, eccetera), poi ho classificato l’erbario in modo scientifico e in questa forma è stato usato come prova in tribunale. Due anni dopo, gli amici di un villaggio mi scrissero che avevano vinto la loro causa e che la cava della loro zona era stata chiusa. Mi sono sentita meravigliosamente.
Lavorare con il movimento Chipko ha avuto un grande impatto su di me. L’ecofemminismo, come lo promuovono Vandana Shiva e molte altre, vede il parallelismo fra la produttività e lo sfruttamento delle donne e delle risorse naturali da parte di società patriarcali. Adesso che sono più vecchia e ho più esperienza nel campo vedo anche altre cose. Le comunità isolate, che non hanno strade o acqua corrente e sono molto dipendenti dal loro ambiente naturale si muovono spontaneamente per proteggerlo: perché per loro significa sopravvivenza. Le donne passano più tempo degli uomini nei campi e nelle foreste, ma sia in comunità di questo tipo sia in assetti più urbani e sofisticati ci sono uomini connessi ai ritmi ecologici. Io sono convinta che chiunque può entrare in sintonia con essi, non è cosa che dipende dall’essere maschio o femmina.
Rispetto allo sfruttamento della natura, ricordo di una classe seminariale in cui discutevamo delle foreste amazzoniche. C’erano 18 studenti e tre studentesse (me compresa) e l’insegnante era un uomo. Alcuni degli studenti maschi continuavano a parlare dello “stupro” della foresta, della foresta “vergine”, come se la foresta fosse una donna. C’era un disagio enorme dipinto sulle facce delle altre due ragazze. Perciò puntualizzai il fatto che l’Amazzonia era una foresta di secondo sviluppo, per cui non così “vergine”. E poi chiesi perché la foresta doveva essere femmina in quanto “vergine” e “stuprata”. “Non ci sono uomini vergini? – domandai – Gli uomini non sono mai stuprati?” Penso che dare un genere alla natura non sia la strada giusta. Produttività, sensibilità, connessione, sono cose umane, non cose da maschi o cose da femmine.
Di recente, stavo spiegando ad un gruppo di donne e uomini, in India, che con il divario di genere che si allarga nel nostro paese lo stupro è diventato il crimine con il maggior tasso di aumento. E gli uomini mi hanno guardata ed hanno detto: “Questo riguarda le donne.” Così ho chiesto loro a quale punto del discorso avevo detto “lo stupro di donne”, perché non avevo detto niente del genere. Sapevano qualcosa delle esperienze degli uomini nelle prigioni? Quando non ci sono donne in giro chi stuprano gli uomini? Si stuprano l’un l’altro!
Veniamo uccise in tale proporzione che non ci sono abbastanza donne nella società indiana ed intere linee matrilineari sono state distrutte. Come si può rovesciare questo dato? La prima cosa da sapere è che non può essere rovesciato. La proporzione biologica naturale nelle società umane è circa 1:1, leggermente più favorevole alle donne giacché costoro tendono a vivere un po’ più a lungo. Quando hai alterato questa proporzione l’hai alterata per sempre. Noi abbiamo circa 50 milioni di uomini in più, in India. Se vuoi tornare all’1:1 l’unico modo possibile sarebbe probabilmente selezionare a caso cinquanta milioni di famiglie indiane e chiedere loro di uccidere un membro maschio di uno specifico settore d’età.

Il tuo libro “Sesso e potere” getta luce sulle diseguaglianze di genere nella nostra cultura. Come è stato accolto in India? Io mi trovo ad avere a che fare con uno spesso muro di diniego ogni volta in cui parlo della violenza di genere nelle comunità indiane.
 Le ricerche e le citazioni per le argomentazioni che porto nel libro sono assai dettagliate e le recensioni sono state buone. Fino ad ora nessuno ha sollevato obiezioni. La resistenza che io affronto è più legata alla “Campagna 50 milioni mancanti” ed è una resistenza muta, un rancore sordo, penso. La cosa strana è che verbalmente non mi contrasta nessuno. Le persone si limitano a diventare silenziose, immusonite, tristi o a disagio. Alcune riescono a dire: “Oh, ma questa cosa sta cambiando!” E tu chiedi in quale direzione sta cambiando, ma loro non desiderano avere nessuna discussione approfondita sul tema. Quando hai fatti, esempi e opinioni loro si ritirano in un angolino molto alla svelta. E’ perché sanno benissimo tutto quel che sai tu, ma continuano a sperare che nessuno lo dica a voce alta. E’ lo stesso modo in cui si maneggiano le violenze incestuose nelle famiglie indiane: 1) Tutti sappiamo che sono sbagliate; 2) Tutti sappiamo che stanno accadendo; 3) In un modo o nell’altro ne siamo tutti complici, e quindi siamo tutti colpevoli. E’ meglio tenerlo segreto e guardare da un’altra parte.
Queste persone provano sconforto quando non c’è posto in cui nascondersi ed il segreto non può più restare tale. L’India dovrebbe guardare in faccia la propria vergogna, invece di stare sulla difensiva, perché questa è sola strada per il cambiamento.

Tu hai dato inizio alla “50 Million Missing Campaign”. Puoi dirci cosa ti ha ispirata a farlo?
La mia indignazione. Sono indiana, sono donna, ed il mio paese mi guarda negli occhi e dice: “Embé? Abbiamo schiacciato 50 milioni di mosche come te!” E sono ancora più sconcertata dal responso a livello globale. Quando gli ebrei venivano annientati in Europa, altri ebrei in tutto il mondo erano oltraggiati, come ogni altra persona decente. Quando i Tusti erano massacrati in Ruanda, gente di colore su tutto il pianeta, africani e no, erano arrabbiati con le Nazioni Unite perché esse non agivano.
Per cui continuo a domandarmi: perché il sistematico sterminio di donne in India non indigna le altre donne del mondo? La cosa stramba è che i gruppi di donne si agitano e si arrabbiano quando le minoranze etniche e religiose vengono prese a bersaglio, ma non rispondono allo stesso modo se sono le donne ad essere sterminate. Danno invece questi suggerimenti alla Florence Nightingale: “istruitele”, “potenziatele economicamente”. Darebbero gli stessi suggerimenti per un genocidio basato su etnia o religione? Naturalmente no. Perché in quei suggerimenti non ci sono ne’ le cause ne’ le soluzioni per un genocidio. Crederlo sarebbe superficiale, ingenuo e persino osceno. Perché quest’approccio apatico al genocidio femminile?

Non in nome nostro

Contro le lotte settarie – Comunicato del Centro egiziano per i diritti delle donne (trad. Maria G. Di Rienzo)



Il Cairo, 10 maggio 2011. Un gran numero di donne egiziane hanno partecipato ad una marcia chiamata “No alla lotta settaria”, questione che è apparsa in tutta la sua bruttezza nel distretto di Imbaba. Le donne hanno partecipato a questa dimostrazione per sottolineare i valori della cittadinanza e della tolleranza, e per arrestare i disordini che sono stati segnalati nel distretto in questione ed in molti altri luoghi in Egitto dopo la rivoluzione.
Il Centro egiziano per i diritti delle donne afferma che gli incidenti accaduti fra musulmani e cristiani sono il chiaro tentativo di cancellare la rivoluzione del 25 gennaio attraverso l’uso delle donne per fomentare il conflitto.
Il Centro egiziano per i diritti delle donne esprime il suo apprezzamento alle donne che hanno manifestato: fra esse vi erano aderenti a tutte le parti politiche e abitanti del distretto di Imbaba, casalinghe, impiegate, musulmane che portavano la croce cristiana e cristiane che affermavano il valore della piena cittadinanza con i loro canti.
Le donne che hanno partecipato alla marcia intendono affermare il loro rifiuto ad essere usate, ed il loro rifiuto dell’uso che si fa della religione in nome loro da ambo le parti.
Il Centro egiziano per i diritti delle donne chiede al governo provvisorio di agire: non si può affrontare la crisi mantenendo una neutralità negativa, ne’ maneggiarla usando i metodi convenzionali, c’è bisogno che le leggi siano applicate se si vuole salvare la nazione.
Il Centro egiziano per i diritti delle donne, nel suo rapporto annuale (2010) sullo status delle donne egiziane, aveva affermato il suo “rifiuto delle sparizioni forzate delle donne e delle restrizioni alla loro libertà di religione”, mettendo in luce “l’uso dell’istanza per ragioni settarie e politiche. Nel frattempo, decine di migliaia di donne che soffrono la condizione di “ragazze di strada” e di “madri di strada” e le donne la cui casa è semplicemente crollata e vivono per strada, sono esposte a violazioni dei loro diritti umani e istituzionali ed alla violenza sessuale.” Tuttavia, nessuno dei partiti che dicono di parlare in nome delle donne si sono mai dati pensiero di queste bambine e di queste donne.

Centro egiziano per i diritti delle donne, Hadayek el Maadi, Il Cairo, Egitto

Email: ecwr@ecwronline.org
Sito web: www.ecwronline.org


P.S. La traduttrice pensa che la manifestazione contro le lotte settarie in nome della religione sia il logico proseguimento dell’impegno delle donne che hanno fatto la rivoluzione in Egitto. Non per niente, come le immagini postate mostrano, questo era il modo in cui trattavano i poliziotti antisommossa venuti per disperderle e bastonarle. Lunga vita alle sorelle egiziane! Maria G. Di Rienzo

FESTA DI MACONDO 2011

4 GIUGNO 2011, ORE 18.00
Istituto Graziani, Via Cereria 1, Bassano del Grappa (VI)

Ci collochiamo dalla parte del torto, in mancanza di un altro posto in cui metterci.”

rispondono

LUIGI ZOJA filosofo, sociologo, psicanalista e scrittore. Milano, Zurigo, New York

ALUISI TOSOLINI antropologo, pedagogista, filosofo e scrittore. Parma

MARIA G. DI RIENZO saggista, giornalista, narratrice ed intellettuale femminista. Treviso

GIACOMO PANIZZA prete anti ‘ndrangheta, Progetto Sud. Lamezia Terme (Cz)

Interviene l’attore comico ENZO IACCHETTI

C’è tanto altro alla Festa, date un’occhiata a www.macondo.it

La bellezza è una canzone

In alcune tribù africane, quando una donna è certa di essere incinta raduna un po’ di amiche e va con loro all’interno della boscaglia. Qui le donne pregano e meditano insieme sino a che non odono la “canzone del bambino”, perché ogni essere vivente ha la sua propria vibrazione e la esprime in modo specifico per gusti e per scopi. Quando le donne sono in sintonia con la canzone, la cantano a voce alta. Poi tornano al villaggio e la insegnano a tutti gli altri.


La bellezza di una donna non sta nei vestiti che indossa, nella figura che ha, o nel modo in cui si pettina i capelli. La bellezza di una donna si vede nei suoi occhi, perché i suoi occhi sono la soglia che porta al suo cuore. La bellezza di una donna è ciò che viene riflesso dalla sua anima. E’ la cura amorevole che ha delle cose, la passione che mostra: e la bellezza di una donna non fa che crescere con il passare degli anni.” (attribuito a Audrey Hepburn)



Il giorno in cui la creatura viene alla luce, l’intera comunità si raduna attorno a lei per cantarle questa canzone. E lo stesso farà in occasione dei suoi riti di passaggio all’età adulta, del suo matrimonio e della sua dipartita da questo mondo.

C’è un’altra occasione in cui la canzone può essere cantata dall’intera tribù, ed è quando l’individuo di cui è significante commette un atto di violenza: gli abitanti del villaggio formano un cerchio attorno a lui o lei e tramite il canto ricordano a questa persona chi è, quali sono i suoi legami, di cos’è fatta la sua identità umana. Sembra che riconoscendo questo non si abbia più ne’ desiderio ne’ bisogno di ferire qualcun altro.
Sorella mia, ascolta. Un amico o un’amica, un compagno o una compagna, la persona di cui puoi fidarti, che ti aiuterà a trovare forza e speranza, è qualcuno che conosce la tua canzone e la canta a te quando la dimentichi. Chi ti ama davvero, chi si cura di te, chi ti riconosce come uguale essere umano, non sarà ingannato dai tuoi errori o dall’immagine oscura che a volte hai di te stessa. Ti ricorderà la tua bellezza quando ti sentirai orribile, ti ricorderà la tua interezza quando ti sentirai spezzata, ti ricorderà la tua innocenza quando ti sentirai colpevole ed il tuo scopo quando ti sentirai confusa. E se tu ami qualcuno e ti curi di qualcuno, farai la stessa cosa per lei o lui.

Riprenditi la tua bellezza. Condividila. Se così tante donne sono infelici del proprio corpo e sono insultate e ferite a causa di esso, è lo standard a loro proposto che deve cambiare, non le donne stesse. Se sei una madre, apprezza il tuo corpo davanti alle tue figlie e figli. Quel corpo vivente non è un fardello, è un dono fantastico, un’opportunità grandiosa, che si sia femmine o maschi.
Dietro i cartelloni pubblicitari, i “consigli per gli acquisti”, le riviste specializzate, gli show televisivi, che suggeriscono ad ogni donna di provare disgusto per se stessa e di correre a riparare i suoi “difetti”, c’è il flusso di miliardi che le industrie relative guadagnano: cosmetici, moda, prodotti dietetici, chirurgia plastica. Nessuna delle immagini proposte cambierà il suo scopo, che è quello di farti sentire inadeguata e insoddisfatta di te stessa, neppure se imponiamo codici di autoregolamentazione o veri e propri regolamenti ai pubblicitari. Potranno coprire una mutanda se protestiamo, o togliere quel cartello dalla strada davanti alla scuola elementare, ma non muteranno la loro attitudine a meno che noi non si rifiuti il modello proposto e si smetta di comprare: i prodotti e le bugie vendute assieme ad essi.

C’è anche, nascosto dalle immagini di divette e modelle, un preciso schema di dominio teso ad esautorarti da qualsiasi ingerenza sociale e politica. Se la tua apparenza diventa più importante della tua salute, più importante dei tuoi talenti, più importante delle tue relazioni, ed il solo focus della tua autostima, si può star certi che non disturberai nessuno preoccupandoti della centrale nucleare che ti costruiscono sotto casa o del fatto che la tua laurea non serve a niente, e meno che mai della gente che muore uccisa dalle bombe lanciate dal tuo paese o annega in mare nel tentativo di raggiungerlo. Devi misurare il giro-coscia, non c’è tempo per sapere cosa stanno facendo a tutto il resto del villaggio, non c’è tempo per ascoltare la tua canzone, e meno che mai per cantarla. Percepisci di essa un disperato desiderio sospeso, e ciò ti fa sperimentare un malessere senza nome e senza volto.

Spesso vediamo più immagini di donne manipolate dai media di quanto incontriamo donne in carne ed ossa, e finiamo per dimenticare le nostre vere vite. E’ in esse che la nostra canzone risuona. Le nostre esistenze sono un sistema relazionale, non lo specchio di Biancaneve in una stanza dove stiamo da sole. Le nostre parenti, le nostre amiche, le nostre colleghe di lavoro o di studio, le nostre vicine di casa: di sicuro c’è qualcuna di loro che ci ha fatto dono della sua particolare bellezza (ispirandoci, ascoltandoci, preparando un pasto per noi, giocando con noi, ridendo o piangendo con noi), e di sicuro alcune delle loro canzoni si intonano alle nostre. L’attrazione che proviamo l’una verso l’altra in questo caso va molto al di là dell’apprezzamento superficiale, e spesso proviamo il desiderio di cantare insieme le nostre canzoni, per vedere dove ci porteranno, se ci sarà qualcuno ad ascoltare, e qualcuno che cercherà di armonizzare al nostro canto il proprio.

Certo, ci sarà sempre anche chi verrà a dirci che non possiamo cantare quella canzone a voce alta, che non dobbiamo farla conoscere a nessuno e che dobbiamo toglierci dalla testa l’idea di formare un coro, un coro di donne che cantano ognuna la propria specifica bellezza legandola a quella delle altre. Ma anche costoro possono essere d’aiuto. Ci stimolano a trovare coraggio, a superare la sfida. Sono come i fuochi da campo che bisogna saltare in momenti particolari (chi ha celebrato un solstizio o chi ha fatto la girl-scout mi capisce bene, vero?); spesso il salto si fa tenendo per mano una seconda persona, il che è ancora più esaltante perché ci dà immediatamente il senso di quanto altro potremo fare cooperando invece che confliggendo.
Anche se non siete nate in un villaggio che canta per voi, la vostra canzone vi ricorda sempre quando siete in sintonia con voi stesse e quando non lo siete. Potreste sentirvi a disagio se l’avete appena riconosciuta o se avete cominciato a cantarla da poco, ma perseverate: tutte le grandi soprano si sono sentite così almeno una volta. Continuate a cantare e troverete la via di casa.

Maria G. Di Rienzo

Senza paura come le donne stanno cambiando il mondo

Con Maria G. Di Rienzo, Selina Hossain e Irin Parvin Khan
Modera Sergia Adamo
Udine, Palazzo Morpurgo, sabato 14 maggio 2011 ore 17.30


A superarla sono in tante. Sono le donne che in varie parti del mondo rifiutano un’esistenza senza dignità e senza futuro, diventando ‘imprenditrici’ di se stesse e dando alle loro vite una sceneggiatura diversa da quella a loro riservata da condizioni culturali e sociali di subalternità e sottomissione.
Sono molte le testimonianze che ci mostrano quanto, nelle situazioni più difficili, la differenza arrivi proprio dalla loro volontà, caparbietà e intelligenza. Dalle loro storie viene anche un monito per le nostre democrazie, perché i diritti raggiunti con grande impegno in passato rischiano oggi di essere inghiottiti da nuovi ordini sociali, che quei diritti tendono a non riconoscere più.

SELINA HOSSAIN
Impegnata nella difesa dei diritti umani e ‘di genere’ nella vita e nella scrittura, è una delle più importanti autrici bengalesi contemporanee.

MARIA G. DI RIENZO
Saggista, scrittrice e formatrice alla nonviolenza. Ha un blog dove pubblica storie e testimonianze di donne di tutto il mondo.

IRIN PARVIN KHAN
Nata e cresciuta in Bangladesh, è rifugiata politica e oggi risiede a Trieste.

SERGIA ADAMO
Insegna Teoria della letteratura all’Università di Trieste.

www.vicinolontano.it

Messaggi d’amicizia

Fra l'inaugurazione di un impianto nucleare (Bushehr) e l'esaltazione di un bombardiere come “messaggero di amicizia” (il drone “Karrar”, che può colpire amichevolmente un bersaglio con diversi tipi di ordigni a mille chilometri di distanza), il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad non cessa mai di adoperarsi per quella che è la sua principale preoccupazione ed invero il più grosso problema del suo paese: l'esistenza delle donne.

Così adesso, ad esempio, ci sono nuove norme per le studentesse universitarie a cui viene proibito di aver le unghie troppo lunghe (mi vedo già la polizia armata di forbicine), di metter cappelli o cappucci sopra l'hijab e di indossare indumenti di “colori brillanti”. Sempre nei campus, l'ordine è di fare tutto il possibile perché gli studenti e le studentesse non si “mischino” neppure in cortile, non parliamo poi di frequentare le stesse lezioni: è incompatibile con i valori islamici sedere nella medesima classe o nel medesimo laboratorio, parola del Ministro della Scienza Kamran Daneshjou, che evidentemente la parola “scienza” non sa cosa sia e l'Islam se lo inventa a suo uso e consumo. 

D'altronde, nel libero e rivoluzionario Iran le donne viaggiano sul retro degli autobus, proprio come i neri a Montgomery durante gli anni '50, se non ricordo male. E se vogliono prender aria in un parco devono andare in quelli specifici per le donne.

Sono tutti sforzi necessari a “tenere a bada Satana”, assicura Ahmadinejad, che per lo stesso motivo vuole che le ragazze si sposino a 16 anni, quando “sono nella prima fioritura”. Qualcuno dovrebbe spiegargli che le ragazze non sono piante di cipolla. Ma il motivo per cui il presidente vuole tanti matrimoni è che vuole aumentare la popolazione (attualmente 75 milioni di persone, di cui un terzo fra i 15 e i 30 anni d'età): allo stesso modo di Khomeini negli anni '80, quelli della guerra con l'Iraq, crede che tanti bambini significhino tanti soldati. Disoccupazione, inflazione e prezzi delle case non sono incoraggianti neppure per le coppie che i bambini li desiderano – il tasso di nascite oggi in Iran è 1,2 – ma, dice sempre il presidente, la pianificazione familiare è certamente “pericolosa” nonché una faccenda “contraria a dio ed importata dall'Occidente.”

Mahmud Ahmadinejad si sbaglia. Forse ha la memoria corta, ma la pianificazione familiare in Iran l'ha programmata ed implementata proprio il governo a partire dal 1989, quando dopo il bagno di sangue della guerra l'economia era al collasso ed avere tanti bambini avrebbe significato solo farli morire di fame. I chierici dell'epoca trovarono il limitare le nascite perfettamente “islamico”. L'Ayatollah Ali Khamenei emanò una “fatwa” dopo l'altra per permettere contraccezione e sterilizzazione. Squadre mobili raggiunsero gli angoli più remoti del paese offrendo gratuitamente preservativi, legamenti delle tube per le donne e vasectomie per gli uomini. Non avere più di due bambini era definito un atto patriottico, religioso e gradito a dio.

Chissà perché, sono convinta che smettere di usare la fede per giustificare tutto e il contrario di tutto sarebbe un atto più gradito a dio. Ma se Ahmadinejad ha proprio tanto bisogno di occuparsi delle donne, ho qualche suggerimento per lui.
Ad esempio, se per cortesia può ridarci le prigioniere politiche, fra cui:

Zahra Rahnavard, artista e scrittrice, docente, attivista politica.
Fatemeh Karroubi, attivista politica.
Fakhrossadat Mohtashamipour, attivista politica.
Fatemeh Khoramjoo, accusata di aver “insultato il supremo leader” mentre le devastavano la casa durante una perquisizione.
Leyla Tavassoli, imprigionata perché ha testimoniato su come un'auto della polizia ha deliberatamente investito una dimostrante.
Mina Farrokh-Rezaei, detenuta perché ha partecipato a manifestazioni.
Motahareh Bahrami Haghighi, 61enne, attivista politica, dapprima condannata a morte e con sentenza commutata in dieci anni di prigione.
Reyhaneh Haj Ebrahim Dabagh, attivista politica, dapprima condannata a morte e con sentenza commutata in 15 anni di prigione.
Nazila Dashti, attivista politica, accusata di “sostenere i Mujahedin”.
Zahra Jabari, la cui esistenza secondo i suoi giudici minaccia “la sicurezza nazionale”, per cui non le permettono di ricevere cure mediche anche se è in condizioni di salute critiche.
Zahra Hatami, insegnante, tenuta in isolamento, di cui la famiglia non sa più nulla dal gennaio 2011.

Se sempre per cortesia può aprire le gabbie dove ha rinchiuso giornaliste e blogger, fra cui:

Jamileh Darolshafaie, giornalista del quotidiano Etemad.
Hengameh Shahidi, giornalista ed attivista per i diritti delle donne.
Maryam Zolfeghar, reporter dell'agenzia di stampa IRNA, di cui non si sa più nulla dal giorno del suo arresto, il 22 giugno 2009.
Zeynab Kazemkhah, dell'agenzia di stampa ISNA.
Sousan Mohammadkhani Ghiasvand, blogger curda, attivista per i diritti umani.
Nazanin Khosravani, giornalista.
Mahsa Amrabadi, giornalista.
Haniyeh Farshi-Shotorban, in galera perché si è permessa di aprire una propria pagina su Facebook.
Parvin Javadzadeh, blogger e “citizen journalist”, dapprima condannata a morte e con sentenza commutata a 26 mesi, in condizioni critiche di salute.

Visto che c'è, potrebbe lasciar andare le attiviste del movimento studentesco e per i diritti umani, fra cui:
Nasrin Sotoudeh, avvocata, attivista per i diritti umani (in particolar modo per i diritti dei bambini) che perciò deve scontare 11 anni di carcere ed è stata bandita per 20 dalla sua professione. Da tre mesi non si può farle visita ne' telefonarle. E' perché continua a protestare tramite sciopero della fame, o perché si rifiuta di essere processata per “assenza di hijab”, l'altra terribile mancanza di cui si è resa responsabile?
Alieh Eghdam Doost, attivista per i diritti delle donne.
Bahareh Hedayat, attivista del movimento studentesco.
Ronak Safarzadeh, curda, attivista per i diritti delle donne.
Mahdieh Golroo, attivista del movimento studentesco.
Hakimeh Shokri, attivista per i diritti umani (i suoi visitatori riferiscono che è sempre piena di lividi: cade per le scale della prigione? Lo fa apposta per denigrare il “supremo leader”?)
Neda Mostaghimi, delle “Madri in lutto”, attivista per i diritti umani.
Fatemeh Masjedi, attivista per i diritti delle donne.
Zeynab Bayazidi, curda, membro della Campagna “Un milione di firme”.
Marjan Alizadeh, studentessa, arrestata durante uno sciopero della fame collettivo alla Facoltà di Medicina dell'Università di Yasuj: non se ne sa più nulla da quel giorno, il 6 gennaio 2011.
Maryam Baziah, studentessa, medesime circostanze.
Pegah Zeidavani, studentessa, medesime circostanze.
Sarah Rahimi, studentessa, medesime circostanze.
Marjan Fayazi, studentessa universitaria.
Farzaneh Najjarnejad, studentessa universitaria.
Shaghayegh Heirani, studentessa universitaria.
Farzaneh Karami, studentessa universitaria.
Shima Vozarai, studentessa universitaria.
Delaram Ghahreman, studentessa universitaria, arrestata per aver partecipato ad un funerale.
Fataneh Rahghi, studentessa universitaria, stesse circostanze.
Sarah Bagheri, attivista del movimento studentesco.

E per non tirarla tanto per le lunghe, per favore tolga le grinfie anche dalle donne arrestate perché praticano una fede diversa dalla sua, fra cui:

le baha'i Anisa Matahar, Fariba Kamalabadi (psicologa), Mahvash Sabet (docente), Fataneh Nouri, Romina Ahrari, Homeyra Parvizi, Mahin Taj Rouhani, Manijeh Manzavian, Nahid Ghadiri, Roya Ghanbari, Rozita Vaseghi, Sahar Beyram-Abadi (attivista per i diritti dei bambini), Sahba Khademi, Sahba Rezvani... e in special modo ci faccia sapere dove sono finite, dopo l'arresto, Maria Ehsan Jafar, Mona Hoveydaei Misaghi, Naghmeh Ghanouni, Romina Zabihian;
le cristiane Arezou Teimuri (accusata di “sionismo cristiano”, irreperibile da dopo l'arresto), Leila Akhavan, Parya Razavi Derakhshi, Sonia Avanessian (irreperibile da dopo l'arresto) e le sufi come Yasmin Ghaderi, di cui pure non si sa nulla dal giorno dell'arresto, il 3.12.2010.

Ci mandi questi “messaggi d'amicizia”, signor presidente. Vedrà, faranno più strada dei suoi drone-bombardieri e forniranno energia migliore di quella delle sue centrali nucleari. Maria G. Di Rienzo

Chiamata alla resistenza nonviolenta

di Laura Carlsen, direttrice dei Programmi per le Americhe del Centro per la Politica Internazionale di Città del Messico, www.cipamericas.org Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo


Quando George W. Bush lasciò la Casa Bianca, il resto del mondo respirò di sollievo. La “dottrina della sicurezza nazionale” fatta di attacchi unilaterali, dell'invasione dell'Iraq motivata dal falso pretesto delle armi di distruzione di massa, e dell'abbandono dei forum multilaterali aveva aperto una nuova fase nelle aggressioni statunitensi. Nonostante ad essere sotto i riflettori fosse il Medioriente, la crescente minaccia di un intervento armato americano gettava la sua lunga ombra su molte parti del mondo. Due anni più tardi, quel senso di sollievo ha lasciato il posto a profonda preoccupazione. Dopo aver sperato in qualcosa di almeno simile a politiche di buon vicinato e di (relativa) non ingerenza, ci troviamo a fronteggiare una nuova ondata di militarizzazione in America Latina sostenuta e promossa dall'amministrazione Obama.
In alcuni paesi, la militarizzazione già caratterizza la vita quotidiana; soldati con fucili d'assalto pattugliano i quartieri e convogli armati monopolizzano le strade. Per Haiti, Honduras, Messico e Colombia, le speranze di tornare ad una civile coesistenza pacifica sono state distrutte da questa ondata. In altri paesi, come Costa Rica, le nuove politiche concertate fra governi conservatori e il Dipartimento della difesa statunitense stanno forzando restrizioni civili e costituzionali con il coinvolgimento degli eserciti. Paura, caos e segretezza sono gli attrezzi preferiti per abbattere le barriere che frenano la militarizzazione.


I costi della militarizzazione

Un esame di questo nuovo scenario rivela standard di vita deteriorati, aumento della violenza, migrazioni forzate, spostamento di priorità nei finanziamenti dai bisogni di base della popolazione alle armi ed allo spionaggio, e violazioni dei diritti civili e dei diritti umani. Nella nostra regione, il paradigma anti-terrorista di Bush è stato convertito – con ben poche differenze - nella guerra ai narcotici. Questo passaggio retorico serve a distanziare le politiche attuali dalla discreditata dottrina della sicurezza nazionale dell'amministrazione Bush, che era largamente impopolare in America Latina, una regione che non è interessata dalle minacce del terrorismo internazionale. I promotori della guerra alle droghe, invece, possono almeno puntare il dito su un problema reale e dei cattivi “classici”.
Il pensiero “macho” se ne esce di nuovo con la solita vecchia storia del bene contro il male che si confrontano sul campo di battaglia sociale, con il solo possibile risultato di avere un vincitore e uno sconfitto. Come cittadini, noi siamo meri spettatori, chiamati ad ignorare la corruzione massiccia che cancella i confini fra i due contendenti e ad accettare il fatto che la battaglia non finirà mai.
Una volta che gli eserciti abbiano il compito di combattere i loro stessi concittadini sul suolo nazionale, lo spostamento del focus dai cartelli della droga all'obiettivo più vasto di occuparsi di qualsiasi supposta sfida allo stato è un passo breve, storicamente provato. E' un passo che mette tutti i dissidenti, anche e specialmente quelli nonviolenti, fra le maglie dell'apparato repressivo statale. Ciò che vediamo oggi in America Latina è che dietro agli scopi dichiarati ci sono gli obiettivi a lungo termine di controllare le risorse naturali e di garantirsi l'accesso ad esse: se necessario, con l'uso della forza.


Le donne chiamano alla resistenza nonviolenta

In tutta la nostra regione le donne, fra i settori più vulnerabili e formalmente meno “potenti” della società, si sono organizzate contro la violenza. Il loro ruolo fondamentale nei movimenti per la pace e contro la guerra non ha nulla a che fare con le argomentazioni fondamentaliste per cui le donne avrebbero un collegamento biologico più forte con la vita, che le porterebbe ad opporsi alle guerre. Abbiamo abbastanza esempi di donne, in politica e nella società, che hanno promosso guerra e militarizzazione per smentire questa affermazione, e numerosi esempi di uomini che rifiutano di sostenere le guerre.
L'impegno delle donne che si organizzano contro la militarizzazione nasce dalle loro specifiche coscienze ed esperienze, e dai ruoli che rivestono nelle comunità. Dalle “Femministe Resistenti” che hanno scelto di contrastare il colpo di stato in Honduras, alle Madri di Ciudad Juárez, in Messico, è stata la terrificante violenza seminata dalle strategie di confronto armato e dal militarismo a motivare le donne alla mobilitazione per la pace e la democrazia. Ciò che hanno sperimentato le spinge ad agire.
Un'altra ragione che spiega il diffuso attivismo delle donne nei movimenti antimilitaristi è che esse corrono rischi particolari sotto l'occupazione militare. Sono, o possono essere, vittime della violenza sessuale e di crimini basati sul genere, incluso l'uso sistematico dello stupro come arma di guerra e dell'abuso sessuale come punizione per le insubordinazioni. E' da un po' di tempo che sappiamo che lo stupro e l'abuso sessuale non sono meri atti individuali di soldati o “bottino di guerra”: sono tattiche di dominio che impiegano i corpi delle donne come mezzi per raggiungere scopi politici e militari. Nondimeno, è stato solo di recente che le Nazioni Unite hanno riconosciuto la violenza sessuale come crimine di guerra e questione riguardante la sicurezza internazionale. Nonostante l'adozione della Risoluzione 1325 dieci anni fa, l'impunità relativa a questi casi continua, favorita dall'indifferenza dell'opinione pubblica, dalla debolezza dei sistemi giudiziari e dal potere detenuto dalle stesse forze militari responsabili degli abusi.


L'organizzarsi delle donne nelle nazioni sotto assedio

L'Haiti di oggi è un tragico esempio di violenza sessuale diffusa in un ambiente militarizzato. Nonostante la presenza di 12.000 soldati appartenenti alla Missione stabilizzatrice delle Nazioni Unite, dopo il terremoto del 12 gennaio 2010 centinaia e centinaia di casi di stupro sono stati denunciati nei campi profughi; un'ong ha riportato la cifra di 230 stupri in 15 campi totali solo fra gennaio e marzo dello stesso anno, una cifra statistica che sfortunatamente appare essere solo la punta dell'iceberg. La concentrazione del volontariato internazionale e lo spiegamento di truppe non sono serviti a proteggere le donne haitiane. Le testimonianze di quelle violentate nei campi profughi attestano che i soldati non rispondono alle loro denunce e notano che la militarizzazione del paese ha indirizzato un enorme ammontare di risorse alle truppe, risorse che se fossero state canalizzate in cibo e alloggi avrebbero tolto le donne da condizioni ad alto rischio. Il caso di Haiti mette in luce una volta di più l'importanza dello sviluppo di analisi basate sul genere dall'inizio degli sforzi per la pace, al fine di raggiungere una visione complessiva delle violenze e di rendere maggiormente inclusiva la definizione di “sicurezza”.
Il contributo dato dalle donne ai movimenti antimilitaristi nei loro paesi non è solo questione di sostegno ad organizzazioni popolari o di rappresentazione, sebbene siano entrambe cose importanti. Le donne hanno anche le loro specifiche richieste, in merito ai loro diritti umani ed all'uguaglianza di genere. Questa agenda deve essere un pilastro nella costruzione di giustizia sociale e pace duratura.

Quale che sia l'urgenza delle lotte contro la militarizzazione in numerosi luoghi, le donne non hanno messo da parte l'agenda femminista, ne' l'hanno lasciata per occuparsene “più tardi”. Come spiega Adelay Carias delle “Femministe Resistenti”: “Le immediate necessità di contrastare l'esercito, di fermare la repressione e di tornare all'ordine costituzionale sono ciò che ci ha motivate e guidate in questa lotta. Ma anche, sin dall'inizio, abbiamo capito che era venuto il momento di porre le nostre richieste, di ampliare i confini del nostro progetto... I nostri slogan “No ai colpi di stato, no ai colpi alle donne”, “Basta con il femminicidio”, “Ne' lo stivale del soldato ne' la tonaca del prete contro le lesbiche”, “Fuori i rosari dalle nostre ovaie”, si potevano udire in tutte le città in cui abbiamo sfilato chiedendo pace, libertà, eguaglianza, democrazia, giustizia.”

Yolanda Becerra, dell'Organizzazione popolare delle donne di Colombia, sottolinea che nel suo paese il movimento delle donne contro la militarizzazione e per la pace con giustizia, sta lottando “per tutti i diritti: il diritto di avere una vita dignitosa, il diritto di scegliere, il diritto di parlare, il diritto di mangiare pur essendo poveri...” Nell'agosto dello scorso anno, le donne colombiane hanno tenuto “l'Incontro internazionale delle donne e dei popoli d'America contro la militarizzazione” per costruire reti, discutere dei conflitti armati da una prospettiva di genere e “cercare modi per disarticolare la logica della guerra”. Donne da tutto il mondo hanno partecipato all'evento, che era legato alle proteste contro l'accordo per permettere la presenza militare statunitense in almeno sette basi dell'esercito colombiano.
Le donne pagano un prezzo salato per la loro resistenza. Le femministe honduregne hanno presentato un rapporto il 2.11.2010 alla Commissione Inter-Americana per i Diritti Umani in cui documentano centinaia di casi di stupro, abuso sessuale e violazione di diritti umani, nonché l'assassinio di donne della resistenza per mano dei fautori del colpo di stato. Alla colombiana Yolanda Becerra, dopo che aveva ricevuto molteplici minacce, la stessa Commissione garantì delle misure protettive.

La senatrice Piedad Córdoba, nota oppositrice della militarizzazione del suo paese e sostenitrice di una soluzione negoziata del conflitto, descrisse la situazione della Colombia all'Incontro internazionale succitato. Parlò dei quattro milioni di rifugiati interni che sono il risultato della militarizzazione del paese e del “trasferimento di più di cinque milioni di ettari di terra, appartenenti ai campesinos, agli interessi della grande industria che finanzia i corpi paramilitari” e concluse: “Questa è la ragione per cui le donne hanno deciso: non daremo più figli alla guerra. E' impossibile usare la guerra per fermare la guerra. La pace non è solo una bella parola. La pace è la necessità di discutere come distribuire i benefici dello sviluppo, è discutere dei destinatari della ricchezza. Ci stiamo confrontando con uno stato che militarizza il pensiero, che militarizza persino il desiderio, l'amore, l'amicizia. Qualsiasi cosa accada, dobbiamo usare le nostre voci per protestare contro la guerra.”

La risposta del governo alle coraggiose parole di Córdoba fu velocissimo. Neppure un mese dopo la sua partecipazione al meeting delle donne contro la militarizzazione, le fu tolto il seggio al Senato e fu bandita da qualsiasi carica pubblica per 18 anni. Il governo della “sicurezza democratica”, l'ultima versione della militarizzazione, ha legami con le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC). Córdoba aveva in effetti partecipato alle negoziazioni ufficiali con le FARC – che sono solo un'altra espressione delle strutture militari patriarcali – ed ottenuto il rilascio di numerosi ostaggi. Dice che le misure del governo non la deruberanno della sua voce e continua a giocare un ruolo importante nel movimento per la pace.
Ora le donne messicane stanno cominciando a soffrire ciò che le loro colleghe colombiane conoscono da decenni. La militarizzazione del Messico, tramite il pretesto della “guerra alla droga” e le iniziative statunitensi, ha raggiunto livelli scioccanti, così come il numero delle persone uccise grazie ad essa. In Messico, come in Colombia, sono le donne le prime linee delle nuove organizzazioni contro la militarizzazione.

Fu una donna, la madre di un giovane assassinato, ad interrompere il discorso di Calderón a Ciudad Juárez nel febbraio 2010. Gridò la sua protesta contro la fallita strategia di sicurezza che ha fatto della città territorio occupato, e che ha aumentato di più di dieci volte il numero degli omicidi. Sono state le donne ad alzarsi in piedi e a voltare la schiena a un Presidente che aveva promesso sicurezza ed ha consegnato morte. E continuano ad essere le donne, all'interno di movimenti propri o misti, quelle che rigettano l'affermazione del governo – ripetuta sino alla nausea - che le morti dei loro figli sono prezzi ragionevoli da pagare per la lotta al crimine organizzato. Sul confine nord del Messico, i difensori dei diritti umani sono stati giustiziati o esiliati. I loro casi sono diversi da quelli delle giovani donne vittime del femminicidio, tuttavia l'impunità regna sovrana per entrambi.

La militarizzazione ha un impatto diretto sulle vite delle donne e sulle forme della loro resistenza. Daysi Flores delle “Femministe Resistenti” racconta la sua esperienza: “Nel giro di un anno, abbiamo dovuto imparare a convivere con la tristezza, con il senso di impotenza, con la rabbia, la paura e la disperazione. Per quanto la dittatura cerchi di mostrarsi con una bella faccia, ti basta camminare per la strada per sapere che il paese è ora di proprietà dell'esercito. Per cui, abbiamo dovuto essere creative: apprendere come fronteggiare le minacce, come non essere uccise, arrestate, stuprate o rapite. E nonostante i rischi, ci rifiutiamo di rinunciare all'idea di democrazia, democrazia vera, quella che ci hanno rubato con i loro fucili, con i gas lacrimogeni, con i pestaggi e gli omicidi. Per questo continuiamo a protestare, anche se ciò mette a rischio le nostre vite.”

Le reti di solidarietà fra donne a livello internazionale sino ad ora hanno funzionato casualmente o in modo effimero. Le donne che si oppongono alla militarizzazione in situazioni di conflitto, e le loro famiglie, sono esposte al rischio di assassinio, abuso sessuale, violenza fisica e psicologica. Dobbiamo costruire reti di responso rapido, di modo che nessuna donna che alzi la voce contro la militarizzazione si trovi da sola. Il processo deve essere velocizzato, prima che la militarizzazione diventi un aspetto “normale” della vita e distrugga il tessuto sociale che è la base per una pace durevole.
Questa è la grande sfida che tutte noi abbiamo davanti.