La bellezza imposta alle donne

Estratto di un’intervista a Jessica Lagunas, “The Daily Femme”, 21.3.2011, trad. Maria G. Di Rienzo. Jessica Lagunas è nata in Nicaragua ed è cresciuta in Guatemala, dove ha studiato grafica e design. Attraverso una varietà di media – installazioni, video, dipinti, scrittura – esplora la condizione delle donne nella società odierna, soprattutto l’ossessione per l’immagine corporea e per la bellezza.





Artwork - Jessica Lagunas

Le tue “video performance” e le installazioni artistiche mandano un messaggio femminista molto forte. Cosa ti ha condotta a queste particolari forme d’arte e al femminismo?

Crescere in Guatemala mi ha esposto alle diseguaglianze di genere ed all’ingiustizia verso le donne, ma all’inizio non sapevo molto del femminismo. Quando mi trasferii a New York con mio marito divenni più cosciente rispetto ad esso; la mia conoscenza del femminismo era empirica, da autodidatta. In quel periodo lessi un gran numero di libri, tutto quel che trovavo, in modo disorganizzato, ed ebbi l’opportunità di assistere a conferenze di Gloria Steinem e di Naomi Wolf, il cui libro “Il mito della bellezza” ebbe un’enorme influenza sui miei primi lavori. Nelle mie opere sono interessata a guardare all’interno, per scoprire parti di me stessa in modo onesto e rispettoso, e diventare una persona migliore. Uso mezzi differenti, come le installazioni, i video, i ricami, i collage, cerco il media con cui l’idea verrà rappresentata meglio.

Ispirandoti alla favola di “Cappuccetto Rosso” hai prodotto una serie di quattro video in cui continuamente ed in modo esagerato ti metti il mascara, e lo smalto per le unghie, e il rossetto, e ti depili il pube. Cosa puoi dirci al proposito?

Voglio indagare l’ossessione delle donne per la loro immagine e i loro corpi. Uso l’esagerazione in modo molto consapevole, per mostrare l’assurdità della pressione che la società esercita su di noi affinché si appaia in un certo modo. Non sarebbe stato lo stesso, nei video, se avessi usato una quantità “normale” di trucco. Attraverso la ripetizione dei gesti volevo mettere in questione il potere della seduzione che si suppone sia dato dal truccarsi. Quando vedi l’enorme ammontare di immagini di donne dovunque, dai cartelloni alle facciate degli edifici, in ogni tipo di pubblicità, capisci che la pressione sulle donne perché siano desiderabili e si curino della loro apparenza arriva ad ossessionarle. E la pressione non viene solo da quel che si vede nelle riviste, in televisione e online, ma anche dalle famiglie, dagli amici e, ironicamente, dalle donne stesse. L’immagine ipersessualizzata della donna proiettata dai media è del tutto irreale, pure è diventata lo “standard” della bellezza. Mi sono chiesta quante donne sono cresciute considerando questo un ideale e credendo che si tratti del solo aspetto accettabile.

Ho usato il mio corpo perché sentivo che era il media migliore per esprimere l’idea dell’ossessione. Mi piace fare da me le performance perché attraverso queste esperienze imparo molte cose su me stessa, e perché mi aiutano a maneggiare e risolvere cose di cui sono curiosa. La maggior parte delle volte – in modo inaspettato – la mia attitudine o la mia visione dell’istanza di cui mi occupo nelle performance cambia. Per quanto riguarda questi video, il risultato è che ho smesso completamente di usare cosmetici. Ne sono disgustata.

C’è movimento femminista nell’arte e nella società guatemalteche, e come si manifesta?

Mi è difficile dirlo, perché manco dal paese da nove anni. Resto in contatto tramite le amiche, internet. Non penso tuttavia vi sia un movimento femminista nell’arte in Guatemala, piuttosto ci sono gruppi come “Lesbiradas”, un collettivo di donne lesbiche che però sono più attiviste sociali, e c’è “La Cuerda”, un quotidiano femminista che ha circa 12/13 anni e vende 20.000 copie. Ci sono alcune femministe che hanno spazi nei giornali locali e il cui focus sono i diritti umani delle donne. La violenza e l’oppressione, anche se non le soffri personalmente, sono cose che in Guatemala vedi e senti tutti i giorni, sempre attorno a te; non vedi e senti solo amiche o conoscenti, proprio le donne in generale. Accade a tutti i livelli della società.

Il tuo ultimo lavoro, “Storie intime”, è un libro che raccoglie i 25 racconti scritti da donne delle tua famiglia sulle loro prime esperienze relative alle mestruazioni. Perché questo particolare argomento era importante per te e cosa vuoi mostrare con questi racconti?

Principalmente, volevo onorare le donne della mia famiglia che hanno condiviso le loro storie sulle prime mestruazioni, in special modo entrambe le mie nonne che sono state molto generose nell’aprirsi. Con questo progetto volevo anche dar voce alle storie dimenticate, o “vergognose”, che ci viene richiesto di tacere. Mentre facevo ricerche sulle mestruazioni, parlandone con una delle mie nonne notai immediatamente che discuterne la metteva a disagio, perciò le chiesi di scrivere. La sua lettera fu così rivelatrice, e la sua esperienza era stata così diversa dalla mia, che chiesi a mia madre e all’altra nonna di fare lo stesso. Ciò che scrissero era talmente sorprendente, soprattutto l’ignoranza altrui che circondava alcuni aspetti di ciò che stava accadendo loro, che fui spinta a fare la stessa richiesta alle mie zie, e alle cugine, e alle nipoti, per scoprire come gli assetti culturali e geografici avevano influenzato le loro esperienze. E per quanto l’argomento sia tabù, tutte si prestarono in modo volonteroso.

Dopo aver letto le loro lettere, ho capito che i loro ricordi e sentimenti non erano mai stati menzionati, e che tutte ci siamo sentite parecchio sole in questo viaggio. Desidero che la prossima generazione della nostra famiglia non si senta così: il progetto è dedicato a loro, di modo che possano avere le nostre voci ed il nostro sostegno, e sapere che le mestruazioni sono un’esperienza naturale della vita di una donna. Ricordo ancora un paio di lettere le cui autrici pensavano che avrebbero sanguinato a morte… Attraverso il progetto sono anche interessata a che uomini e donne comincino a dialogare sull’argomento, di modo che il tabù si rompa.

Tu hai detto: L’intento della mia arte è che le donne, guardandola, diventino più consapevoli. Per me, è la cosa più importante. In che modo il tuo lavoro raggiunge questo scopo?

Mi piacerebbe che le donne pensassero criticamente a perché fanno quel che fanno. Spero che il mio lavoro, a qualche livello, le renda più consce di se stesse. Voglio che la mia arte sia uno specchio per le donne, in cui possano guardarsi onestamente. Forse vedranno qualcosa di diverso da quel che era stato insegnato loro, forse rideranno o piangeranno guardando l’immagine riflessa, forse si sentiranno più forti e agiranno. Questo momento di autocoscienza, l’essere consapevoli rispetto ad un’istanza o una situazione, o vedere le cose in modo diverso: questo è quel che mi interessa, perché dopo si ha il potere di scegliere. Vorrei sottolineare che io non sono contraria all’essere “femminili” o al vestirsi bene per qualche occasione speciale: sono contraria all’ossessione per l’immagine ed alle insicurezze che essa causa, al metterci due ore per riuscire ad uscire di casa, al non andare alla festa dell’amica perché non abbiamo un vestito abbastanza bello, al rimuginare costantemente su come “mettere a posto” il nostro corpo. Ho perso il conto delle donne che mi hanno detto: “Mi ricordo dei tuoi video ogni volta che uso del trucco.” E’ il miglior complimento che potessero farmi.

Voci nel vento

Il vento del cambiamento ha cominciato a soffiare in Tunisia, ma poi si è diffuso in Egitto, Libia, Yemen, Algeria, Sudan, Bahrain, Siria… e voci di donne cantano nel vento.



“Le donne tunisine hanno partecipato ad ogni singola manifestazione prima e dopo la caduta del regime di Ben Ali, cercando un ruolo nuovo per il futuro e tentando di ottenere che le loro voci fossero ascoltate.”, dice Hedia, quarant’anni, responsabile della raccolta dati per il Centro di istruzione e ricerca delle donne arabe in Tunisia, “Rappresentano generazioni diverse ed hanno retroscena molto differenti, ma c’erano tutte, quelle con l’hijab e quelle con la minigonna. C’è una consapevolezza molto alta, fra le donne, del fatto che dovremmo muoverci per non essere escluse o marginalizzate. Nonostante l’intensa partecipazione alle proteste, la presenza delle donne nel primo e nel secondo governo provvisorio che si sono formati non la riflette.”
Le fa eco l’attivista egiziana Amal Sharaf, insegnante d’inglese 36enne: “Metà delle persone presenti in Piazza Tahrir erano donne. C’è una generale richiesta, nell’opinione pubblica, di partecipazione collettiva alla politica, perciò anche le donne devono farne parte. Mia madre mi ha detto per anni di star lontana dalla politica, perché secondo lei ci avrei guadagnato solo dei mal di testa, ma oggi la sua prospettiva è cambiata: Stai attenta alla controrivoluzione, mi dice un po’ scherzando e un po’ sul serio.”
Nel frattempo, le siriane mettono le mani avanti: “Il nostro motto è “Per una società libera dalla violenza e dalla discriminazione”, perciò condanniamo l’uso della violenza da qualunque parte arrivi. Il governo dev’essere responsabile per le azioni delle sue forze di sicurezza, non solo con la retorica, ma attraverso un’indagine reale e trasparente che riguardi chiunque agisca in modo violento. L’uso o persino la minaccia della violenza da parte dei manifestanti è anche per noi interamente inaccettabile. Il fine non giustifica i mezzi. Il nostro scopo è una cittadinanza autentica, che contrasti ogni uso di violenza o divisione etnica e tribale. Diamo il benvenuto ad ogni progresso nella pratica della cittadinanza, perché crediamo che essa aiuti la causa della nonviolenza e le istanze relative alle donne, ai bambini ed alle persone in difficoltà. Infine, condanniamo nel modo più assoluto ogni persona o gruppo che impieghi retorica settaria, etnica o tribale: confinarsi in tali identità ristrette va contro l’aspirazione di ogni cittadino e cittadina siriani che vogliono godere del loro diritto fondamentale all’eguaglianza, eguaglianza di diritti e di doveri, al di là della razza, della religione, del genere o di ogni considerazione discriminatoria.” (tratto dal comunicato dell’Osservatorio delle donne siriane, 23.3.2011)
Un’altra Amal (Basha), yemenita del Forum delle sorelle arabe per i diritti umani, sembra avere la stessa visione: “Una vera democrazia significherà necessariamente eguali diritti ed eguale partecipazione per uomini e donne. Alle donne nel nostro paese non è permesso prender parte alle decisioni, non sono riconosciute come uguali esseri umani e non sono nei posti dove meriterebbero di essere per capacità e qualifiche. La discriminazione è il nostro grande problema: verso le donne, fra uomini, fra nord e sud del paese. Quel che c’è di positivo nel movimento in Yemen è che la chiamata al cambiamento ha unito le persone da nord a sud. In questo momento, tutti gli yemeniti vogliono un cambiamento. Le richieste di separazione da parte del sud del paese sono cessate. La richiesta è la stessa da parte di tutti: cambiamento, cambiare il regime, cambiare il sistema. Un paese moderno, rispetto per la legge, una Costituzione che rifletta la volontà del popolo ed assicuri il bilanciamento fra i vari poteri: questo è ciò che la gente chiede, metter fine all’oppressione, alla carcerazione di migliaia di persone, e all’uso della guerra come mezzo per risolvere i problemi.”
Amal Basha, assieme ad una ventina di organizzazioni di volontariato, organizza l’assistenza alle manifestazioni pacifiche, composte per la maggioranza di studenti: hanno creato comitati per la salute, per il coordinamento fra dimostranti, per l’informazione, per la protezione dalla violenza. Amal è un po’ preoccupata dalla scarsa visibilità internazionale della protesta: “La comunità internazionale non deve tacere su quel che accade in Yemen. La gente in Libia ha dovuto fronteggiare una repressione brutale e non vogliamo che quel che sta succedendo in Libia succeda anche a noi.”
Attenta agli sviluppi nei vari paesi arabi è anche la tunisina Hedia: “Al di là di quel che sarà il risultato delle proteste in ogni nazione o di che impatto la partecipazione delle donne ha ora, il vero indicatore sarà quanto la loro partecipazione nel fare la storia si rifletterà nel partecipare dopo al processo decisionale. Questa è la cosa più importante, ciò che verrà.”
Maria G. Di Rienzo
(Fonti: Gulf News, Women Living Under Muslim Laws, The Guardian, Syrian Women Observatory, Sisters’ Arab Forum for Human Rights)

Come lucciole sotto la Luna


E’ un fatto non molto noto che i nazisti sponsorizzarono la distribuzione delle fiabe dei fratelli Grimm agli allievi delle scuole elementari. I nazisti consideravano i testi dei Grimm “tedeschi in quintessenza” e “alfieri valorosi della Germania in guerra” (vedasi
Ruth B. Bottigheimer, saggio contenuto in “The Reception of Grimms’ Fairy Tales”, 1993). Ancor meno noto è che le forze di occupazione inglesi e statunitensi requisirono tutti i libri dei Grimm dalle scuole tedesche e li ricollocarono in svariate biblioteche. Gli uni e gli altri, sembra, erano perfettamente a conoscenza dell’effetto di desensibilizzazione che le narrazioni violente, ripetute ad oltranza, generano in chi le riceve – e parecchie fiabe dei Grimm sono la versione efferata di storie preesistenti.
Gli anni dell’infanzia sono vulnerabili in modo particolare all’effetto della desensibilizzazione, ma non è che la psiche adulta sia corazzata contro di esso: semplicemente, bisogna ripetere il messaggio di più, e condirlo con qualche giustificazione pseudo-ideologica di cui i bambini non hanno bisogno. Alla fine, di fronte alla violenza, all’ingiustizia, alla sopraffazione, alla guerra, alla degradazione, noi potremo dire le parole di comodo che socialmente è sensato dire, esprimere argomentati ragionamenti che razionalizzano gli abusi, e dormirci sopra: il nostro cuore non avrà avuto il minimo sussulto, i nostri occhi saranno rimasti asciutti ed i nostri affari – che, ci assicura la propaganda, resteranno intoccati da tutto ciò – andranno avanti come di consueto. Commettere abusi a danno di un altro essere vivente ci sembrerà sempre meno disdicevole, ed il nostro esempio di adulti rafforzerà l’effetto di desensibilizzazione prodotto nei piccoli dalle narrazioni e dalle immagini che glorificano la violenza, propinate loro da tutti i media con cui vengono a contatto.
La recita è ossessivamente replicata, così pervasiva, che è capace di cancellare persino la memoria recente. Fra persone che conosco stanno girando angosciosi quesiti del genere: se parliamo del disastro nucleare in Giappone ci dicono che ne stiamo approfittando, non è meglio star zitti? Se ci opponiamo ai bombardamenti in Libia diranno che siamo complici delle crudeltà di Gheddafi, non è meglio lasciar perdere? Se difendiamo ancora la scuola pubblica poi ci accuseranno di volere il 6 politico e le lauree collettive, non è meglio parlare d’altro? A costoro, di fronte al massiccio spiegamento mediatico di menzogne, e grazie all’erosione desensibilizzante, le proprie cause appaiono deboli. Basta un insulto ipocrita e gratuito a farle vacillare.
Ma chi è un avvoltoio o uno sciacallo: chi cerca di salvare esseri umani e l’intero pianeta con essi, o chi distrugge entrambi per avidità di profitto? Solo per fare un esempio, nell’ex Unione Sovietica non c’è stato solo Chernobyl tanti anni fa, sapete. Nel Kazakistan dell’est, dove si sono fatti “test atomici” a ripetizione, un milione e mezzo di persone sono state esposte all’avvelenamento nucleare ed il loro intero sistema di produzione e consumo di cibo è tuttora contaminato: il tasso di cancri è solo cinque volte più alto di quello nazionale, una bazzecola, che siano talleri, rupie, certificati di credito o contratti transnazionali, il vecchio buon soldo è sempre qualcosa per cui vale la pena uccidere.
Chi sono i signori che oggi piangono le vittime di Gheddafi, non sono proprio quelli che gli hanno stretto la mano, o l’hanno persino baciata in perfetto stile mafioso, l’altro ieri? Credetemi, ad un morto ammazzato non fa differenza se la bomba – prodotta di solito negli stessi stabilimenti – gliela fa cadere addosso un dittatore o un presidente democraticamente eletto: avrebbe comunque preferito continuare a vivere. E chi è che vi dice panzane sulla scuola pubblica, forse la Ministra che l’ha distrutta?
Chi vi propina le manovre economiche sacrificali, continuando ad infilare l’invisibile mano del mercato nelle tasche dei salariati, vi dice anche che se tutti i governi mondiali sottraessero un solo quarto alla cifra che spendono annualmente in armamenti (un trilione e mezzo di dollari) potrebbero dare cibo, istruzione e servizi sanitari a tutta la popolazione della Terra? Vi dicono che l’intero budget delle Nazioni Unite corrisponde all’1,8% delle spese militari mondiali?
Spesso mi domando, con un certo grado di sconforto, cosa gli italiani sono diventati. Sono sicura, tra l’altro, che lo sconforto ha una dimensione collettiva e che chi si arrovella su “cosa diranno di noi” (siamo pochi e soli eccetera) lo prova in modo considerevole. Ma è tempo di uscire da questa sindrome, di creare passione e potere condiviso, di aver lingue veriterie e menti magiche, di essere profeti manovali, poeti guaritori, giullari della metamorfosi. E’ tempo di guardare tutto con gli occhi resi splendenti dalle idee che ci frullano in testa come lucciole sotto la luna. E’ tempo di tessere tanti fili provenienti da luoghi diversi nel più fantastico e desiderabile degli arazzi, un pianeta su cui si possa vivere, creare, condividere: in pace.


Maria G. Di Rienzo


P.S. Proverbio cinese: “Fa’ felici coloro che ti sono vicini, e quelli che sono lontani verranno.”

Giappone e nucleare, le parole di Satomi Oba nel 1996 oggi più attuali che mai

“Il sistema nucleare, sia il suo uso militare o civile, è uno dei più violenti che la società patriarcale ha inventato e sviluppato. Il potere dell’energia nucleare cresce particolarmente bene in atmosfere non democratiche.” Satomi Oba, 1999

L’abbiamo persa il 24 febbraio del 2005, a 54 anni, per un’emorragia cerebrale. Il suo nome era Satomi Oba: viveva ad Hiroshima, era un’attivista anti-nucleare ed anti-militarista, un’attivista per i diritti umani, un’insegnante d’inglese, madre di quattro figli. Il Giappone ha l’usanza di onorare i propri cittadini di spicco quali “tesori nazionali”; chi l’ha conosciuta, e chi ancora oggi gode dei lasciti del suo instancabile impegno, sa che Satomi Oba era (ed è) un “tesoro internazionale”. Oltre a dirigere “Plutonium Action Hiroshima” in Giappone, ha fatto parte di “Women and Life on Earth”, “Abolition 2000”, “WISE – World Information Service on Energy”, “Nuclear Information and Resource Service”; “Global Network Against Weapons and Nuclear Power in Space”.

Quella che segue è la traduzione di parte di un’intervista che Anna Gyorgy, di Green Korea, le fece nell’autunno del 1996.

Satomi: Sono venuta a stare ad Hiroshima quando ero una studentessa universitaria nel 1969, e qui appresi per la prima volta i pericoli dell’energia atomica. Ho visto una quantità enorme di immagini del dopo-bomba ed ho ascoltato di persona molte storie di sopravvissuti. Sentivo che quel che era accaduto era orribile, e che dovevamo fare tutto quanto in nostro potere per fermare la proliferazione di armi nucleari. Ma fu sempre allora che cominciai a chiedermi perché la gente di Hiroshima fosse così attiva contro le armi nucleari e non altrettanto contro gli impianti nucleari.

Ho dato inizio a “Plutonium Action Hiroshima” nel 1991, quando lo stoccaggio di plutonio (proveniente dagli impianti di trattamento francesi) era appena cominciato. Ma prima di ciò avevamo già organizzato azioni dopo l’incidente di Chernobyl nel 1986. Da molti anni mi occupo della questione e ormai so, ho visto, che gli impianti nucleari e le armi nucleari sono in origine la stessa cosa. (…) L’incidente di Monju (dicembre 1995, ndt.) è stato a suo modo epocale. Ha mostrato alla gente cos’è davvero un reattore “fast-breeder”, cos’è il sodio liquido (tonnellate di sodio liquido colarono dal sistema di raffreddamento del reattore, ndt.), quanti pericoli l’energia nucleare comporta. In Giappone ci sono oggi numerosi lavoratori che sono stati esposti alle radiazioni e stanno soffrendo. E il reattore di Monju, che è costato 6 miliardi di dollari, è oggi un pasticcio al di là di ogni possibile utilizzo. (…) Giappone e Francia vengono spesso citati come esempi di paesi che hanno avuto “successo” con l’energia nucleare, ma io ho visto gli impianti in entrambi i paesi, ne conosco gli effetti e i ritorni, e so che sono due fallimenti. In gennaio (1996, ndt.) siamo andati in Francia: sopravvissuti, attivisti di base, residenti di seconda generazione, a tenere un esposizione sul bombardamento atomico di Hiroshima, per opporci al test nucleare francese nel Pacifico del sud. Mentre a Parigi i sopravvissuti mostravano le immagini di Hiroshima e raccontavano le loro storie, io sono andata al Centro di La Hague, il porto vicino a Cherbourg da dove le scorie radioattive vengono mandate per mare, e al reattore Super-Phoenix. (…) La questione delle scorie non ha una vera soluzione. L’unica soluzione è smettere di produrne. A La Hague lo stoccaggio di scorie ha contaminato il territorio in maniera seria. Il governo non ha effettuato alcuna ricerca, e non possiede alcuna documentazione al proposito: sono i gruppi di cittadini che hanno sollevato la questione, osservato, fatto ricerche, prodotto la documentazione ed infine rivelato il livello di contaminazione a La Hague. Di scorie radioattive ce ne sono già troppe, avrebbero dovuto pensarci prima, trent’anni fa, e quelle che ci sono vanno tenute d’occhio e al sicuro dove sono state prodotte, e non portate in giro per il mondo. Ma la cosa principale sarebbe almeno riconoscere onestamente che una soluzione per le scorie non c’è. (…)

Dopo Chernobyl tantissime persone in Giappone, in maggioranza donne, hanno cominciato ad essere attive contro gli impianti nucleari, così il governo e le industrie ci hanno pensato su un bel po’ e se ne sono usciti dicendo che il nucleare è “energia pulita”, e ci hanno inondate di dépliant e propaganda sulla “protezione dell’ambiente”; danno persino soldi ai gruppi ambientalisti, ma certo non a noi, che lottiamo contro le centrali. Le donne in Giappone sono le leader dei movimenti di questo tipo, che nascono dal basso. Non seguono nessuno, guidano e ispirano, e lo trovo meraviglioso. L’idea della mostra in Francia è venuta dalle donne. E quando sono andata a Panama, per fermare l’imbarco di scorie altamente radioattive, gli altri tre membri del gruppo d’azione diretta erano donne. Dei 150 membri attivi di “Plutonium Action Hiroshima”, la maggioranza sono donne.

L'arte di essere una "trickster"

Sapete cos'è un trickster? La traduzione italiana è “imbroglione”, ma la connotazione negativa del termine nella nostra lingua non rende davvero l'idea. Potremmo avvicinarci ad una comprensione migliore definendolo un personaggio che modifica la realtà, o più esattamente modifica la percezione della realtà nelle persone che entrano in contatto con lui o lei.
Praticamente ogni società umana ha una leggenda o una fiaba su questo personaggio, che può essere una dea o un dio (Brigit, Loki, Eshu, Hermes), un mortale (Sherazade e i vari “buffoni” di corte o di villaggio) e persino un animale: le mitologie abbondano di volpi, coyote, corvi e topi che fanno cose davvero strane.
Il trickster è un muta-forma, cambia apparenza, racconta storie per prendere tempo o per confondere i suoi oppositori, usa l'umorismo e gli indovinelli, fa giochi di abilità per distrarre, si finge stupido o inconsapevole, mantiene un'impassibile faccia tosta nel bel mezzo del caos. Spesso questa figura è riverita come sacra nelle varie culture, perché il nobile trickster sfida i limiti ed i confini per un motivo preciso: il suo scopo è aiutare le persone a comprendere verità importanti, che senza il suo intervento esse non vedrebbero o non sarebbero capaci di accettare.
Le difensore dei diritti umani delle donne sono le trickster più intelligenti della nostra epoca. Le loro tecniche incorporano la danza, il canto, le risate, i fiori, l'arte, la cultura, parole e silenzi, svelamenti e travestimenti.
Quando devono confrontarsi con un soldato o un'intrusione armata, sanno immediatamente imbastire una protezione mantenendo l'espressione di consumati giocatori di poker: “Le mie colleghe saranno qui a minuti”; “Ero al telefono con il Ministero proprio in questo momento.”; “Ho già chiamato la polizia.”; “Ma tu non sei il figlio della mia amica?”; “Ah sì, il capo villaggio, di cui sono parente, me parlava proprio ieri.”... E poi esagerano o fingono infermità e periodi mestruali, esaltano i propri collegamenti internazionali o li negano completamente. Usando una semplicità disarmante, soffice e non minacciosa, con la faccia tosta o il più clamoroso dei travestimenti, allontanano la violenza, la smontano, e cambiano il mondo. Le trickster lo spiegano così:
“In alcuni villaggi, i mariti insistevano per controllare i nostri incontri fra donne. Tentammo varie strategie, per tre anni, per trovare un modo in cui le donne potessero parlare senza essere interrotte o azzittite dai loro mariti. Alla fine fu la cucina a darci il mezzo. Cucinare insieme, imparare proprietà degli alimenti, ricette, eccetera. Chiedemmo agli uomini di partecipare, ma questo era troppo per loro: non volevano aver niente a che fare con la cucina. Così se ne andarono. E noi potemmo tenere i nostri incontri indisturbate.” Difensora dei diritti umani delle donne di Most, Bosnia (vuole mantenere l'anonimato)
“Dovemmo fronteggiare molte difficoltà quando sollevammo la questione dei diritti di proprietà. Eravamo pesantamente criticate e continuavamo a ricevere minacce anonime di ogni tipo. Ad un certo punto, persino la Federazione Hindu cominciò a protestare contro il nostro movimento e le nostre richieste, ritenendo che noi stessimo sfidando i principi religiosi. Noi rispondemmo che stavamo sfidando la struttura sociale, e che la cosa non aveva a che fare specificatamente con la religione Hindu. Non solo non volevamo offenderli: stavamo implicando che anche le donne buddiste e le donne musulmane hanno gli stessi diritti, cosa che a questo punto furono costretti ad accettare. A volte bisogna essere un po' furbi nel portare avanti i movimenti.” Sapana Pradhan Malla, difensora dei diritti umani delle donne, Nepal.
“Mentre cammini per strada, può saltar fuori un uomo, o più d'uno, che ti dice cose del tipo: “Scommetto che se faccio sesso con te non sarai più una lesbica.” Come posso essere libera, qui? Mi prendo la mia dose di odio solo uscendo di casa. Quando la paura passa il livello di guardia, cambio modo di portare i capelli, cambio vestiti. Ma assolutamente non cambio me stessa.” Zoe Gudovic, attivista per i diritti delle persone omosessuali, Belgrado, Serbia.
“Usiamo il tempo che passiamo insieme sui campi. Coltiviamo, raccogliamo, innaffiamo, e parliamo delle violazioni dei nostri diritti umani e di come contrastarle.” Josephine Kavira Malimukona, difensora dei diritti umani delle donne, Repubblica democratica del Congo.
“Une delle tecniche è stata continuare a “fare le donne”: cucito, cucina, eccetera, come mezzo per entrare in contatto con le altre ed aiutarle a comprendere la realtà della loro situazione e dei loro diritti umani. Altre attiviste hanno ricevuto l'aiuto delle Peace Brigades International: membri di questa associazione vivevano nelle loro case, le accompagnavano alle manifestazioni o agli incontri. I membri delle brigate sono pacifisti e amici della nonviolenza che vengono dall'estero: dietro ognuno di loro c'è un'ambasciata straniera, e questo per la protezione dalla violenza conta. Le donne dicevano che averli al proprio fianco era come avere un'intera ambasciata dietro di te.” Emerita Patinio Acue, difensora dei diritti umani delle donne, Colombia